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a MCLP. In memoriam.

[ Brano confluito in: Qui la vita, qui gioisci, Ab imis, 2024 ]

Ero stato distratto dalla mia vita. Mi ero perso nel tentativo egoista, e che ora ritengo oltremodo indelicato, di salvarmi dal desiderio che avevo provato per te. E così, intorpidito dalla distanza e dal divorzio delle nostre voci, non mi sono accorto della tua morte.
La malattia si era impossessata da tempo del tuo destino, della tua bellezza. L’epilogo era ormai scontato. Ma non c’è mai un buon motivo per mancare di rispetto alla morte di chi ci ha donato la sua fiducia e le sue risate più audaci.
Lo so, lo so perfettamente che detto così è fin troppo facile, ma bisogna cercare di essere sempre in anticipo di almeno un sorriso rispetto all’ineluttabile.
– Pomeriggio ventoso, ozioso. Me ne sto fuori a fumare un mezzo toscano mentre le chiome degli ulivi sembrano salutare le nuvole nere che corrono verso Sud. Ti penso. In questi giorni, da quando ho saputo che la Nera Signora ti ha portata via con sé, non faccio che pensarti. Ed è inutile ripetersi che non meritavi quella sorte. Il destino non si merita, e neanche si subisce. Accade e basta. Non possiamo far altro che lasciare la porta socchiusa. Facciamo delle scelte, certo, ed è bello farle: ci rende unici, ci fa godere del nostro andamento tra le stelle indifferenti. Ma ciò per cui ci batte il cuore non evita che la nostra materia si franga contro un nuovo possibile anche nostro malgrado.

I miei pensieri cercano di tenerti dentro una passione ancora calda. Non voglio che il desiderio diventi un contabile freddo e razionale, un becchino gentile. Tenerti dentro il pensiero significa voler bene anche al male che ci ha riservato la nostra particolare esistenza. D’altronde, come potrei tradire la poesia che ha erotizzato anche le nostre mancanze consegnandomi da ultimo a un’amicizia a prova di morte?
Il vento dell’irrimediabile non arriva a scompigliare i ricordi. S’insinua tra le immagini che ho di te, mette a nudo la natura delle cose, ma non sconcerta il mio affetto. Ti penso, ed è come se il mio pensiero non conoscesse più alcun rancore verso la morte. Cerco di vederti negli alberi, nelle nuvole, nei gatti di casa, nella lontananza delle cose che non abbiamo eluso. La tenerezza allora si prende tutto, elimina gli spigoli della vita, e fa sì che la vastità indecorosa e stupenda dell’universo non gravi più di tanto sulle incertezze del giorno.
Avevi un’intelligenza che ho sempre ritenuto costitutivamente erotica e alla quale conferivi una continuità erotizzando ogni manifestazione della tua presenza. Contro l’alea del desiderio e l’intermittenza del godimento, mettevi in scena una seduzione ironica e illimitata, sovente fraintesa, con la piena consapevolezza della fragilità che dovevi esorcizzare a ogni denudamento della realtà.

Il tuo erotismo era una continua tensione tra natura e progetto, e in questa ambivalenza, che rappresentava il fuoco e il limite stesso della tua poeticità, e dove si tallonavano criticamente maschile e femminile, appariva chiaro che il femminile attenesse la morbidezza, la resistenza, mentre il maschile (come da copione) si riducesse alla durezza e alla fragilità.
Ciò nondimeno, riuscivi a ingioiellarti con l’oscenità del tuo corpo esplicito senza mai neanche sfiorare la volgarità di coloro che venivano meno alla tua fiducia. Dietro l’ostentazione quasi didascalica del tuo erotismo, mediata in gran parte dalla parzialità dei maschi che cercavano d’incorniciarti, prevaleva comunque la tua malizia. Se la visione del maschio si porta dietro pur sempre uno stupro simbolico, metaforizzato più o meno malamente dal suo desiderio di possesso, tu riuscivi a neutralizzare il predominio del cazzo facendo diventare “filosofici” tutti i dettagli erotici della tua presenza, senza per questo renderli neutri o inoperosi.
Tu creavi sesso. Tu imbrattavi la poesia con le tue voglie. E l’intelligenza del tuo corpo si permetteva un’impudicizia gioiosa, persefonica, sottraendosi a ogni annessione, facendosi abitare solo da un’oscenità ironica, tenera, inasservibile. Ed era proprio grazie alla tua ironia, ai tuoi propositi di accudimento verso il divenire erotico del mondo, che sfuggivi ogni volta alla pornografia degli spiriti asserviti e al cattivo gusto del loro risibile inferno domestico.

In un modo che sarà apparso oscuro ai più, hai difeso l’unicità dell’affetto carnale contro la liberalizzazione pornografica dell’amore. In te, il governo dell’energia sessuale, che è sempre stato storicamente, stolidamente maschile, si andava trasformando in po(e)tenza di un corpo che si dice con ogni sesso possibile. Contro la potenza malferma del maschile (e delle dinamiche di potere erettili), tu facevi passare infatti l’idea di un’assoluta libertà sessuale della poesia. In te, la realtà si trasformava in poesia, divenendo anche più reale di molti dei corpi che potremmo mai abbracciare in un’intera vita. Movimento ingenuo, e che nondimeno ci mantiene al di qua di ogni rimozione, trasmutando il nostro desiderio in una sorta di iperrealismo della materia vivente, in un Odradek carnale e proteiforme, totalmente inutile, totalmente inscambiabile, ma, proprio per questo, capace di sottrarsi all’economia dell’amore.
– Mentre continuo a godermi il sigaro restando assorto nei miei pensieri, compare improvvisamente un’upupa. Si posa sotto il limone che ho davanti casa e comincia a zampettare, con la cresta eretta, a pochi metri da me. Essendo uccelli assai schivi, è raro ammirarne uno a distanza così ravvicinata. Mi viene da sorridere e non riesco a trattenere un collegamento tra l’apparizione dell’upupa e le riflessioni che andavo facendo su di te. Per un attimo, credo che mi si stia trasmettendo la vibrazione di una presenza e che tutte le mie visioni si addensino in un continuo differimento della tua ultima parola: eccoci qui, dunque, ancora una volta, a tenerci per voce, a realizzare l’origine delle cose, dei corpi, in una nostra eterna prima volta, come se ci sorprendessimo ancora e sempre a scoprire un’intesa, un’ala comune del desiderio.


Laureana, estate del 2020. Fotografie: Claudia Sanna.