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[ Estratto da un mio saggio inedito. Le foto sono di Nella Tarantino, che ringrazio di tutto cuore per il bel regalo. ]

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Le parole tumulto, tumido, tumescenza, arrivano nella lingua italiana attraverso i lessemi latini tumeō, tumēre (da cui tumultus, tumidus, ma anche tumor, tumulus), che a loro volta derivano dalla radice etimologica protoindoeuropea tēu- (təu-, teu̯ə-, tu̯ō-, tū̆-). Quest’ultima designa sempre un accrescimento, un’espansione, un moto di forze (o tra forze) atto a innescare un ampliamento, una crescita verso l’alto o l’esterno, ma anche un “molti”, una moltitudine, una pluralità in movimento.
Parole che evocano senz’altro una trama di sangue, un pieno, una piena. Filamenti di pensiero che partono da un punto qualsiasi del labirinto e che, almeno a sprazzi, ci traggono fuori dalla morte del pensiero, erigendoci al di sopra del consueto.
La vita e il pensiero della vita, d’altronde, son fatti anche da elevazioni, dinamiche erettili, conservazione della stazione eretta, scongiuri contro la caduta, l’abbattimento. Elevazioni del sé, del comune; anche contro il comune, se necessario. Vale a dire affioramenti, pelle d’oca del pensiero, tumescenze del sangue. Incontro fatale tra tumulto e tumescenza. Incrocio d’amicizie imponderabile, ma sempre avvertibile, sempre possibile. In altre parole, un’ibridazione affettuosa tra la tensione dei viventi e lo spazio, per la quale si potrebbe parlare di tumultescenza, indicando con questo neologismo, con questo concetto ferocemente gioioso (per come lo intendo io), il disimpegno vitale e toccante rispetto all’asetticità, alla distanza sociale cautelativa, alle sanificazioni socialmente determinate.
In termini generali, ma anche violentemente singolari, ciò che io intendo con tumultescenza segna, e segnerà in modo sempre più marcato, la lotta senza quartiere dell’uomo e di Dio contro la macchina, contro le macchinazioni della società, quindi soprattutto contro il sociale che si fa cattura e valorizzazione della disabilità affettiva democraticamente ripartita.

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La tumultescenza si vuole sciolta dagli antagonismi. È madre e figlia della gioia. Non prepara nuove guerre. Non abbellisce i limiti della presenza. Non partecipa all’economia politica dell’amore. La carne e lo spirito, d’altronde, in una visione realmente liberata dagli schemi autoritari, battagliano casomai contro l’inessenziale, il banale, ma non tra di loro, non per prevalere l’una sull’altro, né tanto meno per farsi depositari del limite.
Di fronte alla guerra dei prìncipi e dei principî, la tumultescenza ha preferenza di no. Spiazza la dialettica, la esautora. Non giunge però ad asserragliarsi, a sparire in una formula come accade a Bartebly (o, meglio, come Bartebly lascia che accada a partire dalla sua atarassia).
La tumultescenza non è una sintesi, una dinamica fusionale, bensì un continuo comunicare gli entusiasmi possibili. Ma qui il verbo comunicare andrebbe scritto più propriamente: com(trattino)unicare. Con ciò, voglio dire che non possiamo più limitarci alla trasmissione o al governo delle informazioni in un mondo che volgarizza ogni sapere. Occorre invece che emerga l’unicità delle proprie relazioni col mondo – in accordo o in comune disaccordo con gli altri – esaltando contestualmente la propria unicità psico-fisica insieme (e grazie) a quella degli altri.
Per restare dentro l’ordine del discorso: occorre evocare, non invocare; donare la parola, non limitarsi a darla o a prenderla più o meno democraticamente.
Il com-unicare diventa quindi pratica (e non semplice istruzione) della com-unicità. I dadi della legge sono truccati, per cui bisogna farne a meno. Il mondo va ricreato, onorato, compreso gentilmente, soprattutto attraverso il desiderio di toccarlo e di farsene toccare. La tenerezza dei saperi deve servirci a preparare l’entusiasmo e la comprensione accorata. Servirci, non asservirci. Com-unicare, non com-unificare. Permetterci di condividere una gentilezza inflessibile, non una liberalità astratta.

Introducendo il concetto di com-unicità, io affermo la danza e l’alleanza delle tumultescenze: quella sovrana ironia con cui l’uomo non accondiscende alla morte, pur essendone gravato, e che gli permette di sottrarre alla follia umana anche il gesto d’abbracciare un cavallo per le vie di Torino.

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Io e te. Io e gli altri. Cosa cerchiamo nel noi? Cosa destiniamo al voi, al loro? Per ogni vivente, c’è un fuori che rende impraticabile una chiusura a riccio nel dentro. Ce ne rendiamo conto fin dalle nostre prime esperienze di vita. Impariamo presto che non può esserci una definitività dell’individuo, né una completa autosufficienza nel nostro mondo interiore. Restiamo esposti, comunicanti. Esiste l’alterità – il fuori – ed esiste di conseguenza il nostro bisogno di gestire le relazioni con l’altro. E sarà proprio agli altri che avanzeremo continuamente delle richieste di nutrimento, di calore. In ciò, non spezziamo mai del tutto quell’insieme di concatenamenti che ci riconduce, su piani diversi, al legame originario con la madre, con la Terra. Accade quindi che per tutta una vita ci si porti dentro, per il tramite di pretese latenti o di aperte rivendicazioni, il bisogno di veder destinato un intero mondo alla nostra conservazione.

La relazione, l’unione, l’ordito comune e rispettoso delle tumultescenze. Io e te. Io con te. Io che non t’impongo il comune, pur abbracciandoti con esso, e tu che appartieni al tuo senso, al tuo sesso della relazione senza ridurti e senza ridurmi dentro la nostra com-unicità.
La relazione, ossia l’unione, l’unirsi rispettoso, concreto, benché talvolta arrischiato, indecidibile. L’esporsi. Il deporre a favore del comune. Il divenirsi incontro. L’interferenza affettuosa che ci dispone all’oltre senza che il pensiero e il corpo si sentano altrove.
Io vengo dunque a te, tu avvieni per me (anche per me, beninteso), e in questo comune divenirci apriamo nuovi mondi, nuovi corpi critici, senza però rinchiuderci dentro un libro, una passione, una funzione sociale.
Io uso la tua unicità, tu usi la mia, e il nostro usarci mutuamente ci sgancia dalla possibile valorizzazione sociale del rapporto e ci consegna al dono, alla munificenza dei gesti, delle parole.
Sconfinando nella tua autenticità, io non invado il tuo territorio, non lo annetto, ma evado dai miei stessi limiti e pervado di senso il mondo insieme a te. L’unione volontaria dei nostri rispettivi egoismi si rivela quindi il grado zero della comunanza, l’aggregato sensibile in cui nasce lo spazio comune – la com-unicità – che ci riconsegna alla nostra immediatezza di pensiero e d’affetto.

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