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cinciarelle, interrogazioni, Jan van Rijn, l'unione dei godimenti, la gioia intransigente, la morte della morte, senso della vita?
[ Estratto da: Carmine Mangone, Perché il reale, eternamente, Delos Digital, 2023. Illustrazione: Jan van Rijn. ]

Mentre io vivo, dov’è la mia morte? Quando sto male, in quale corpo si trova la mia salute? Se invece sto bene, dove si annida la “malattia” della materia? Quanti altri corpi vivono e muoiono dentro ciò che io ritengo il mio corpo? Quale segmento dell’universo emerge attraverso di me? E cosa posso propormi, se possibile, per esaltarlo e rilanciarlo nella mia orbita intorno alla morte?
Interrogazioni, domande. Ancora e sempre domande cui dare un luogo. Domande essenziali, tenere, abissali, come il movimento della materia che mi offre a esse, riconducendomi ogni volta ai limiti e alla tensione della mia unicità.
Intanto, mentre scrivo queste righe (è un mattino di fine aprile), continua senza posa l’alacre attività delle cinciarelle che fanno il nido da anni in una crepa del muro sopra la finestra del mio bagno. I deliziosi uccellini stanno nutrendo i loro pulcini e si producono ogni giorno in una miriade di voli per catturare insetti e larve. Anch’essi hanno una capacità riflessiva, una memoria: riconoscono i proprî spazi e il loro simile, si riproducono, danno continuità alla propria materia vivente, si assumono l’esperienza di dare corpo e senso alla configurazione chiamata cinciarella. Il loro senso è un andamento riconoscibile, un addensamento quantico che li fa affiorare dal divenire. Non sono a caso. Nessuno è a caso. Il loro riandare ogni anno alle medesime configurazioni della propria esistenza li lega all’unica causa plausibile: godere della propria materia “animata”, della propria configurazione specifica, preparando così il ritorno, sempre diverso, a figure e corpi analoghi, in una sorta di affettuosità verso l’aspetto riconoscibile dell’universo che va emergendo proprio da quelle figure, da quei corpi.
Il godimento di sé è la caduta nell’eterno, l’affiorare smorfioso del senso dal fondale dell’eternità. Godere di sé significa vivere e morire senza dare alcuna importanza all’evento originario, all’eventuale causa prima dell’essere, ma creando comunque una dimestichezza con la successione infinita e inarrestabile degli eventi. La gioia del divenire non sta nell’accettare passivamente la necessità (“devo respirare, devo mangiare, devo sopravvivere”), ma nel trasformarla in un dono della materia, in un’affermazione critica e ironica della presenza (“posso respirare, posso mangiare, posso morire”) [1].
L’eternità non va confusa con l’immortalità. Occorre pensarla invece come l’incessante trasformazione del morire, della presenza, in un mutare continuo della trasformazione stessa. L’assetto dell’esistente si trasforma infatti senza fine. Cambiano cioè infinitamente le relazioni tra gli elementi, i posizionamenti tra le particelle che costituiscono la materia; e tali cambiamenti trascinano con sé la ricchezza del possibile, vale a dire l’intensità, l’unicità, i picchi di senso di cui noi viventi, in quanto sedi eventuali del cambiamento, facciamo esperienza e che rilanciamo, senza posa, anche razionalmente [2], oltre la nostra morte singolare.
In compagnia delle stelle, anche quando i nostri cieli sembrano morti, l’interrogazione che portiamo, fin nel luogo cavernoso dell’incertezza, ci espone all’azzardo e all’oltranza senza rimedio del possibile. La traduzione del dubbio rimane infinita. Non esiste codice sufficiente. E tuttavia tentiamo, sperimentiamo – in una perdita giocosa di senso – il motivo del desiderio, il moto ondulatorio della definizione, dell’affetto. La risacca della morte non ci dispone al nulla. Anzi, essa ci avvicina ulteriormente alle lusinghe della materia, dei corpi, e tende a farci invadere da un’intera galassia di pretese.
Ma una tale sfida implica la vittoria sulla paura e un approccio poetico in campo aperto – fuori dalle città, lontano dalle convenzioni – andando incontro all’Altro senza brandire una fede, un’ontologia. Io non sono, bensì accado, e accado criticamente in una sfaccettata e molteplice esperienza del senso. Non appartengo all’unità di un essere, bensì alle molteplici faccette (e sfumature) di un’unicità che si gode se stessa in relazione alla particola d’universo che la abita.
Nella mancanza di parsimonia del divenire, le forze in gioco son talmente tante da rendere impossibile una collocazione definitiva del senso. La costruzione di una continuità tra i picchi di conoscenza può sopperire solo in parte all’impossibilità di un movimento delle cose oggettivamente giudizioso. L’oggettività è un mito, una sfocatura razionale del mondo. Nel sapere non è dato un oggetto stabile, invariabile, ma solo una concordanza, una consonanza tra diverse unicità. Ciò che si può ancora chiamare verità è la gioia condivisa di una lettura critica del mondo, nonché l’approssimazione, l’apertura verso un destino comune che fa dell’Altro un mio vero simile. Quest’avvicinamento, questa ricerca di un punto di tangenza con l’Altro, è la modalità principe del mio corpo per dare più potenza al divenire dell’unicità.
Il senso è la placidità, l’accortezza con cui rilego le mie esperienze vitali in una teoria della soddisfazione, in un sapere che raccolga e rilanci la compiutezza di certi eventi, di certe relazioni: un cielo pieno di rondini, il primo bacio, il pane cotto a legna e appena sfornato, Lautréamont, le fusa dei gatti, il nostro andare alla radice delle cose senza dimenticare la bellezza delle superfici, le passeggiate in montagna, il suono del violoncello, l’ultimo Artaud, la luce dorata di certi tramonti cilentani, il sorriso degli amici, le notti stellate, il Dio di Spinoza che attiene anche ai miei ulivi…
Nella gioia possibile del divenire, il senso è la radicalità dell’esperienza che non ci abbarbica stupidamente alle presunte radici del nostro pensiero, ma che ci porta di comune accordo a fiorire, a fruttificare, a divenire ramificati, sporiferi.
In difesa della vita e della morte, bisogna staccarsi dall’ideale, da ogni forma di ideale, e forgiare un pensiero e una carne del pensiero che possano possedere la concretezza pietrosa delle questioni; possedersi allora in quanto problema carnale irrisolvibile e che nondimeno si vuole senza la vaghezza e la vanagloria dell’astratto; toccare con mano il pensiero; introdursi di frodo nel pensiero e farlo esplodere in nuovi corpi, in nuove opacità.
L’ideale è la fissità storica della mancanza, la puerilità dell’uomo moderno che annega nell’acqua sporca della sua stessa filosofia. Bisogna quindi credere che il godimento non sia appannaggio del futuro o un balocco meramente culturale del desiderio. Il contrario dell’ideale è l’affermazione di una consistenza memorabile della materia carnale. Non si può accettare il ricatto affettivo degli dèi o dei moralisti. Come frutto di un accudimento, l’esperienza immanente della mia soddisfazione sarà la morte gloriosa di ogni senso di colpa.
Ciò che è nella voce esce dalla voce e si mette a riordinare le frammentazioni dell’Essere. Non per rifarlo. Non si può continuare infatti a errare idealisticamente dentro il proprio corpo. Occorre invece spaventare l’Essere e indurlo a nascondersi. Solo la continuità e la parola del mio movimento mi appartengono, se so dirle senza rinchiudermi in un’astrattezza, in una fissità moralizzante. Dovrò quindi demoralizzare il mondo e fare della sua continua impermanenza l’unica regola e l’unico ritmo del mio riconoscermi in esso.
Se l’organismo è una folla di funzioni, e la nostra angoscia un labirinto dalle pareti di vetro, bisognerà acconsentire al fatto che la ragione sia ormai nuda e che i nomi (i nomi della convenienza) non la vestano più.
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NOTE
[1] Se giungiamo a godere compiutamente di noi stessi, e della realtà mondana in cui ci troviamo, vuol dire che abbiamo avuto delle congiunture favorevoli che hanno agevolato un tale godimento. Nascere in questo o in quel paese, in questo o in quel periodo storico, può cambiare totalmente le carte in tavola. La vita quotidiana può risultare assai problematica in certe situazioni e non rendere affatto facile l’autonomo e pieno dispiegamento della propria unicità. Detto questo, la cosa migliore che possiamo fare, quando il destino ci arride, è omaggiare la nostra fortuna senza provare alcun senso di colpa. La disperazione degli altri non può subordinarci alle loro speranze: o si costruisce insieme una potenza comune, o ci si compiange invano in una medesima impotenza.
[2] Vi è dell’ironia, qui, nel sottolineare la razionale intenzione a non voler morire mai del tutto, a non voler abdicare alla trasformazione definitiva e senz’appello della propria materia costitutiva. L’ironia è la licenza poetica che ci concediamo rispetto alla morte e rispetto all’eterno divenire della materia.