Qui je hante?

Carmine Mangone è nato a Salerno il 23 dicembre 1967. Proviene da una famiglia proletaria e contadina di origini cilentane. Si avvicina alla poesia e comincia a interessarsi alla sovversione della vita quotidiana dopo la scoperta del punk anarchico e la lettura di Max Stirner, Lautréamont e Benjamin Péret. Ha alle spalle studi di informatica e una laurea in Scienze politiche, ma per stare al mondo si è ingegnato spesso e volentieri facendo, tra le altre cose, l’idraulico, l’apicoltore, lo squatter, il curatore editoriale. Ha tradotto in italiano Rimbaud, Péret, Vaneigem, Lautréamont, Blanchot, Char, Bataille, Artaud e molti altri. Dal 1998 tiene letture e azioni poetiche in tutta Italia, ritrovandosi spesso a spalleggiare autori di rilevanza internazionale come Lawrence Ferlinghetti, John Giorno, Jack Hirschman o Alejandro Jodorowsky. Nel 2015 è stato tradotto e pubblicato anche in Francia.

Carmine Mangone est né à Salerne le 23 décembre 1967. Poète, penseur et critique des mouvements subversifs, il aborde l’écriture et la pratique de la subversion quotidienne après la découverte du punk anarchiste et la lecture de Max Stirner, Lautréamont et Benjamin Péret. Quant aux métiers, il a tout fait dans sa vie : le plombier, l’apiculteur, le squatteur, l’éducateur, l’éditeur digital pirate etc. Il a aussi traduit du français Arthur Rimbaud, Benjamin Péret, Raoul Vaneigem, Maurice Blanchot, René Char, Antonin Artaud, Georges Bataille et beaucoup d’autres.

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Ho molto amato, molto letto, molto bevuto e molto battagliato. Sono contento? Sì, sono contento. Resto soddisfatto? No, non resto soddisfatto.

Carmine Mangone, Il saper amore, Ab imis, 2018, p. 12.

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Mi è sempre parsa stupenda la questione che si poneva André Breton nell’incipit di Nadja: «Qui je hante?».
Ossia: chi strego? In chi perseguo me stesso? Quale pensiero infesto? Con quali menti faccio festa? Chi è che farà la festa alla mia mente insieme a me?

C. Mangone, Vieni: tumulto, carezza, stella*nera/Ab imis, 2019.

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LA COMUNITÀ INGOVERNABILE

bisogna farsi dell’amore
un’idea offensiva

con sorrisi di pioggia battente
sulle teste da tagliare

[ perché ogni amore è un criterio di verità
ogni abbraccio è una
porta che si spalanca sulla comunità ingovernabile
e a volte
bisogna essere davvero intolleranti

non per difendere la propria verità
ma per far sì che gli altri se ne inventino una ]

C. Mangone, Mai troppo tardi per le fragole, L’Orecchio di Van Gogh, Falconara Marittima (AN), 2009, p. 9.

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nella stagione del sangue e della
cioccolata
il poeta ride
a braccetto con la morte

agirà l’idea di
una distruzione felice e di
neri stendardi e athanor matrice
in come dubbio seguitando
la genia fottuta dei mercanti

rimbaud inculava rimbaud
sulla giostra dell’ignoto

C. Mangone, Incastrato tra fuoco e lacrime, City Lights Italia, Firenze, 1998, pp. 29, 40 e 44.

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Riepilogando. Noi siamo al mondo e il mondo è bello, ancorché ci appaia più o meno giusto. Per cui mangiamo, beviamo, dormiamo, ci adoperiamo per le necessità e cerchiamo di mantenerci in salute. In tutto questo – e nonostante questo – troviamo un senso alla nostra esistenza e ci premuriamo di svilupparlo; il che avviene invariabilmente attraverso la presenza di altri esseri umani, avendo cioè come stimolo e orizzonte reale una specifica comunità umana (foss’anche una stirneriana “unione tra egoisti”). In altre parole, il senso del mondo di un uomo ha origine con la nascita della sua riflessività e con l’inizio della sua intesa con gli altri; si sviluppa poi nell’ambiente in cui vive – che gli pone un ventaglio possibile di scelte – e muore quando muore il suo pensiero, la sua umanità. Quindi non può esserci un senso del mondo che vada bene per tutti o che abbia una necessità intrinseca: il senso abita il mondo e riempie il pensiero degli uomini, ma non è univoco, né tanto meno eterno, e la sua storia è composta da una molteplicità di biografie del senso, una per ogni uomo che abbia a cuore il movimento generale della comunità umana (sia nel pensiero, sia nel logico sviluppo del proprio agire).
Contro il capitale, bisogna affermare (e autonomizzare) la continuità di questo movimento essenziale che si apre tra gli uomini e che fonda le loro facoltà empatiche, la loro disposizione umana verso gli elementi del cosmo. Se il capitale si rivela incessantemente come separazione e valorizzazione di frammenti, occorrerà allora costruire il possibile dell’uomo ripristinando la continuità tra tutti gli ambiti della propria presenza e a partire da un annientamento reale dei processi di valorizzazione del capitale.
Gli eventi della storia umana hanno dimostrato che la negazione della negazione non mette in gioco necessariamente un’affermazione, e che quindi bisogna invertire il processo: anziché negare l’esistente procrastinando a tempo indeterminato l’affermazione che ne era idealisticamente alla base, bisogna affermare realmente l’uomo negando il capitale (e varando contestualmente un flusso immediato di comunizzazione anarchica).
L’affermazione dell’uomo parte dalla potenza delle sue connessioni autonome, dalla sua volontà di costruire insiemi di senso, per sé e per gli altri viventi, al di fuori dei processi alienanti della società, ma soprattutto dalla sua capacità a condividere queste connessioni e questi insiemi in un raffinamento libertario del mondo.
Affermare l’uomo significa costruire l’armonia tra le diverse inclinazioni umane, senza per questo voler costringere i viventi in una continuità generale delle esperienze che non sia scelta da loro liberamente.
L’alienazione sociale ha prodotto le varie ottusità dell’uomo e lo ha vincolato all’interno di un’idea del mondo che è fin troppo rigida, chiusa com’è dalle sue stesse provvisorietà storiche. Il mondo è invece aperto, è sempre stato aperto a tutto il possibile, proprio perché contenitore immane. E dentro il mondo c’è anche buona parte di quella natura che si è cercato di soggiogare autoritariamente: una natura che genera disastri, rimane imprevedibile, sbatte di continuo in faccia all’uomo la sua mortalità, ma che è pur sempre la base comune dei viventi, l’intensità totale dei loro possibili, e che proprio per questo non può essere assoggettata violentemente senza che si violenti di riflesso (o direttamente) anche la specie umana.
Il capitale ci vuole isolati, schierati contro ogni comunizzazione possibile della naturalezza umana. Ci vuole soprattutto come ingranaggi intercambiabili dentro le strutture macchiniche che la stessa riflessività dell’uomo ha posto in essere. La sua utopia è una civiltà di macchine senza più vita; un mondo di numeri, algoritmi, virtualità che comunicano in automatico le operazioni da compiere per l’autovalorizzazione dell’esistente. Contro questa tendenza letale – che apparirà sempre meno “fantascientifica” con lo sviluppo delle nanobiotecnologie – bisogna spezzare l’isolamento tra gli umani e creare una miriade di microinsurrezioni comunizzatrici. Ma intendiamoci. L’umanità non ha bisogno di rivoluzionari di professione, né di chierici della radicalità sovversiva. L’umanità ha bisogno di una progettualità senza vertici e di gesti che costruiscano una comunità senza dipendenze. Occorre quindi creare affetti; compiere la vita insieme alla bellezza degli altri; mettere in comune gioia e desideri allargando sempre più lo spazio decapitalizzato. È questa la sfida, l’avventura tutta umana che bisogna infine regalarsi per non passare invano.

Dalla postfazione di C. Mangone a: Ratgeb (Raoul Vaneigem), Dallo sciopero selvaggio all’autogestione generalizzata, Gwynplaine, Camerano (AN), 2013, pp. 153-155.

5 risposte a “Qui je hante?”

  1. amleta ha detto:

    “Il capitale ci vuole isolati, schierati contro ogni comunizzazione possibile della naturalezza umana”.
    È vero, tutto inizia col senso del possesso, col senso di possedere ridorse e anche persone. Questo crea le paure di perdere ciò che si ha. Così facendo ci dimentica ciò che si è. Si diventa paurosi e diffidenti. A volte ho faticato a capire tanta paura e nel fare questo son stata isolata da chi mi credeva una minaccia solo perchè venivo da un altto luogo. È davvero assurdo come si costruiscono barriere invisibili con le parole o col silenzio. Per anni mi è stato persino negato un saluto, cosa che mi ha ferita tantissimo. Ma ho resistito perchè loro hanno ma io sono. 😊

    • Io credo che gli umani, in quanto mammiferi, non possano mai staccarsi da una concezione territoriale dello spazio. Il guaio è che, civilizzandoci (almeno a parole e con le parole), abbiamo infittito confini, misure, ordinamenti et similia, asservendoci ad essi e asservendo a sua volta la “natura”: una delle più gravi sciagure nella storia umana. Oggi bisognerebbe inventarsi una visione comunitaria, anarchica e compassionevole dello stare insieme. Ne parlo diffusamente nel mio recente saggio intorno al pensiero di Stirner. Le concezioni storiche di patria, nazione, razza, ecc. vanno abbandonate, combattute. Lo stesso concetto di società andrebbe messo radicalmente in discussione, come pure il numero, i numeri. Siamo in troppi su questo pianeta e facciamo troppi calcoli, da troppo tempo. P.S.: da quale luogo provieni?

      • amleta ha detto:

        Io vengo dal Sud, da “Akragas” ma vivo in Veneto, per lavoro.
        Io ho sempre detto di essere cittadina della Terra. Io non concepisco il nazionalismo estremo e non capisco chi non si è mai spostato dal proprio nido.
        Forse io son stata fortunata perchè gia a 4 anni i mei genitori mi portavano in giro per l’Europa. Quindi mi sento a casa dovunque sia.
        Gli esseri umani hanno molti condizionamenti, hanno ragione i buddisti, e dovrebbero liberarsene.
        Io mi sento come un fiore che sboccia pure sulle rocce o sulla sabbia. Il mondo mi piace tutto.
        Non c’è un posto dove non sono curiosa di andare 😊

  2. Benvenuto su wordpress Carmine.

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