Carmine Mangone, “Nostra Poesia dei Lupi”, Nautilus, 2022

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Io son di quelli che ancora credono alla poesia possibile delle relazioni e alla gioia dell’incontro, sragion per cui mi ostino a vivere, insisto con la scrittura, pianto alberi, pianto in asso le risposte evasive che mi do di volta in volta e non mi perso a sputare su ciò che non comprendo.
Osservo i miei luoghi e i miei luoghi mi abitano. Cerco una consonanza con gli ulivi e gli animali del mio Cilento ed essi non si fanno pregare: giungono alla porta del mio spirito e io lascio che entrino. Fronde, presenze, orme dovunque…
Questo piccolo libro che s’intitola Nostra Poesia dei Lupi prova a dire tutto questo e altro ancora. Dice, per esempio, un amore che s’infrange, la rabbia che si trasforma in potatura del superfluo, le parole che ti fanno le fusa, nonché il rigore e la lucidità nell’inseguire un oltre che non è mai altrove.
Pertanto, mie care amiche, amici miei cari, vogliate bene ai limiti dell’autore e cercate fra queste pagine, se vi va, le ombre del sollievo o il raggio di sole che affronta il banale.
Io, per quanto mi riguarda, ce l’ho messa tutta per trovare delle consonanze e per dare un senso alla mia personale battaglia contro la mediocrità. [Carmine Mangone, 4 luglio 2022]

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Carmine Mangone, Nostra Poesia dei Lupi, Nautilus, Torino, 2022, 64 pagine, euro quattro, no copyright. [distribuz. nelle librerie: Diest]

Per richieste, potete contattarmi tramite il modulo posto in fondo alla pagina Bookshop, su Telegram, oppure inviando una mail all’indirizzo mangone.carmine@gmail.com. Grazie.

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Alcuni estratti da Nostra Poesia dei Lupi:

*

L’ho voluta in tutti i miei pensieri.
L’ho sentita parlare alla terra, alle nuvole.
Ho protetto la nostra gioia dai piccoli concetti del tempo.
Le ho dato una mano per farmi attraversare la distanza
che ci divide.
L’ho persa, l’ho ritrovata,
alcune mie parole si sono barricate in suo nome,
ma nessuno,
nessuno mai potrà nasconderci il sole, la morte,
neanche Dio, neanche l’ignoto.

*

Nessuna corteccia biasima il vento.

*

Un improvviso bisogno di semplicità mi colpisce al volto e mi fa bestemmiare per un piccolo gatto lasciato morto sul ciglio della strada da questa immane tragedia che si chiama civiltà.

*

Io festeggio il mondo ogni giorno – e le pietre rotolano contente sotto il cuore – anche quando il mondo frena, inciampa ed io guerreggio con esso.
Ardire un sorriso. Ardire il sole. Ardire la pervicacia della faina combattente.

*

Dove sono incastonati gli occhi dell’albero?
In quale pietra si nasconde il sorriso della terra?
Che cosa sognano i semi portati dal vento?
Sulle ali della poiana, monta l’ambizione dell’aria.
Fra le tue mani, abita la primavera delle carezze.
È forse tardi per andare col mondo?
Ogni giorno, il desiderio costruisce una tana in cui morire,
mentre una giovane volpe mi urla dai quattro cantoni
della bellezza.

*

Siate cauti, ma non fatevi abbrutire dalla paura. Mantenete una distanza rispetto alle tante morti che ci assediano o ci lusingano, ma non rispetto alla bellezza sempre possibile della vita. Non isolate la vostra bellezza. Inventate nuove tenerezze, nuove modalità per fregare la morte e non datela
vinta a chi ci vuole isolati, impauriti, mediocri nichilisti senza compassione.

Voi potreste chiedermi: cos’è questa bellezza sempre possibile della vita di cui ci parli? Perché mai dovremmo inventarci nuove tenerezze? Per quale motivo non dovremmo isolarci e premunirci contro il mondo assoldando per la nostra bisogna il meglio del pensiero nichilista?
Vedete. Se il tetto perde acqua, non per questo la casa deve diventare un naufragio. Basta individuare le tegole fuori posto e sistemarle. La bellezza è solo un nome per la zattera su cui troviamo posto mentre intorno a noi ogni cosa continua a morire. Affrontare i flutti può sembrare
vano, ma solo finché non assumete il punto di vista del surfista che si mette in gioco tra le pieghe dell’oceano. L’onda è il sorriso del mare, la benedizione del destino che vi allontana dalla noia di Itaca. Avete paura? E che senso ha questa vostra paura se neanche vi degnate di sfidare i limiti che vi riconoscete? Possibile che vi accontentiate di tenere al largo la morte senza la benché minima voglia d’accarezzare la balena bianca?

*

Oggi pomeriggio, per circa un’ora, una coppia di poiane ha volteggiato sontuosamente sopra la mia casa. E ho pensato: lascerò il mondo in buone ali.

*

Le carezze che non ti ho dato
sono nell’aria pura del disincanto,
fra le mani di chi mai si farà fregare dal
rimpianto.
Arriveranno col primo sole
– ardite, inclementi –,
dopo questa mediocre apocalisse
che spaventa i servi
e ritempra le sementi.

*

Casa è dove liberi la tua morte.

*

Quando morirò, se la sorte mi arride, sarà un giorno come un altro, ma non certo una morte come un’altra. I gatti seguiteranno a fare le fusa, le radici a carezzare la terra, i libri a restare ancor più aperti. Morirò allora ridendo del mio povero infinito e di tutte le cadute che avrò mancato, ma non per questo chiederò i danni alla materia o all’amore. Non voglio sconti dall’eterno, né tanto meno la
commiserazione dei vostri cieli migliori. Sarebbe d’altronde disdicevole fare della morte una transazione economica o un pessimo avatar della poesia.

Carmine Mangone, “L’ingovernabile”, Ab imis, 2018

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Carmine Mangone, L’ingovernabile, Ab imis, 2018, 130 pp.

Acquista il libro su: Kindle Store

In copertina: Zbigniew Łagocki, fotografia appartenente al ciclo “Dotknięcia” (2001).

Il presente scritto è la versione rivista e ag­giornata di un testo pubblicato originaria­mente nel 2011 dalle edizioni marchigiane Gwynplaine. All’epoca, ebbe però un titolo diverso: La qualità dell’ingovernabile.

Si tratta di uno scritto cui tengo moltissimo, perché tratteggia in modo incisivo, netto, e senza troppi fronzoli, tutti i temi che hanno continuato a stregarmi in questi anni.

Per poter continuare a essere la mia “casset­ta degli attrezzi” teorica (e intrigare i miei pochi, eccellenti lettori), aveva però biso­gno di una messa a punto formale; cosa che ho provveduto a fare senza modificare qua­si in niente la sostanza delle mie idee e dei miei affetti.

*   *   *

[ Alcuni estratti dall’opera: ]

Chi non sa dove andare, possiede ancora tutte le direzioni. Chi ha paura del freddo, può sempre lasciarsi bruciare godendo del proprio fuoco. Chi affronta il vuoto, deve convincersi di non avere niente da perdere e che le difficoltà nel conoscere il mondo rendono quest’ultimo solo più avvincente.

Voglio sempre sperare che chi scriva lo faccia solo quando non ha di meglio da fare, perché avrei tristezza e paura di coloro che preferiscono armeggiare con le parole invece di fare l’amore, giocare, ribellarsi, andare a camminare sui monti, bighellonare senza meta per la città, bere o parlare amabilmente con gli amici.
La scrittura, e la poesia scritta in particolare, rimane in relazione con il senso solo quando questo stesso senso si mantiene in relazione con il nostro mondo e con i viventi che vi partecipano attivamente; oppure quando si fa ponte gettato verso l’impossibile, verso la gioia che sarà, e che vorremmo per noi, per la nostra comunità amorosa.
Le parole che restano, quelle cioè che diventano testo, libro, voce fissata in un’opera, non vanno vissute o veicolate come se fossero residui, scorie di ciò che è stato o di ciò che si è solo vagheggiato, ma devono farsi scintille, connessioni col mondo, nuova carne poetica.
Solo così possono ancora significare quella rigorosa ingenuità di cuore che rimane alla base di ogni bel movimento di ciò che vive.

L’anarchia è la potenza che non assume forma – movimento della negazione che delegittima la padronanza dei limiti senza limitarsi a padroneggiare la negazione.
Amore furente, creazione finanche per mezzo della distruzione: l’esistenza dell’anarchia testimonia l’impossibilità reale del potere e l’impossibilità stessa di stabilire la potenza dentro un’idea. Ogni anarchismo politico ha perso e perde in partenza, non tanto contro il potere, bensì contro il movimento stesso dell’anarchia, che non ha bisogno di vincere per affermarsi. Nessun potere vincerà l’anarchia. Nessuna struttura anarchica sopravvivrà al proprio movimento.

Mi dovrò intagliare una fica dentro la mente, aprire una vagina nella sostanza più dura del mio pensiero. I concetti non sono cazzi da brandire come manganelli. Occorre trovare il giusto accoppiamento tra i pensieri (ci sono pensieri maschi, pensieri femmine, pensieri senza genere) evitando però di prostituirli alle necessità di una logica. Bisogna fare in modo che anche le idee riecheggino i godimenti passati o futuri.

Spogliare il corpo di ogni spettacolo. Spogliare il mio e il tuo, di corpi, insieme ai loro pensieri, alle cose, alla parola che li limita.
Svestire il destino, toccare, amarsi, mentre l’idea del corpo continua a parlare senza di noi.

* * *

Si possono leggere gratuitamente le prime 30 pagine su Google Libri.

Arthur Rimbaud, “Una stagione all’inferno ” :: incipit

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rimbo

« Jadis, si je me souviens bien, ma vie était un festin où s’ouvraient tous les cœurs, où tous les vins coulaient.
Un soir, j’ai assis la Beauté sur mes genoux. – Et je l’ai trouvée amère. – Et je l’ai injuriée.
Je me suis armé contre la justice.
Je me suis enfui. Ô sorcières, ô misère, ô haine, c’est à vous que mon trésor a été confié !
Je parvins à faire s’évanouir dans mon esprit toute l’espérance humaine. Sur toute joie pour l’étrangler j’ai fait le bond sourd de la bête féroce.
J’ai appelé les bourreaux pour, en périssant, mordre la crosse de leurs fusils. J’ai appelé les fléaux, pour m’étouffer avec le sable, le sang. Le malheur a été mon dieu. Je me suis allongé dans la boue. Je me suis séché à l’air du crime. Et j’ai joué de bons tours à la folie.
Et le printemps m’a apporté l’affreux rire de l’idiot.
Or, tout dernièrement m’étant trouvé sur le point de faire le dernier couac ! [1]  j’ai songé à rechercher la clef du festin ancien, où je reprendrais peut-être appétit.
La charité est cette clef. – Cette inspiration prouve que j’ai rêvé !  ” ”
«Tu resteras hyène, etc…,» se récrie le démon qui me couronna de si aimables pavots. «Gagne la mort avec tous tes appétits, et ton égoïsme et tous les péchés capitaux.»
Ah ! j’en ai trop pris : – Mais, cher Satan, je vous en conjure, une prunelle moins irritée ! et en attendant les quelques petites lâchetés en retard, vous qui aimez dans l’écrivain l’absence des facultés descriptives ou instructives, je vous détache ces quelques hideux feuillets de mon carnet de damné.

* * *

«Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino in cui ogni cuore si apriva, ogni vino scorreva.
Una sera, feci sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho ingiuriata.
Mi armai contro la giustizia.
Sono fuggito. Ô streghe, miseria, odio, a voi è stato affidato il mio tesoro!
Giunsi a far svanire nel mio spirito qualunque speranza umana. Su ogni gioia, per strozzarla, feci un balzo sordo da bestia feroce.
Ho invocato i carnefici per mordere il calcio dei loro fucili morendo. Ho chiamato a raccolta i flagelli per soffocarmi con la sabbia, il sangue. Il disastro fu il mio dio. Mi distesi nel fango. Mi asciugai al vento del crimine. E ho giocato dei brutti tiri alla follia.
E la primavera mi ha portato l’orrenda risata dell’idiota.
Ora, essendomi trovato di recente sul punto di stonare per l’ultima volta! ho pensato di cercare la chiave dell’antico festino, dove forse ritroverei l’appetito.
Questa chiave è la carità. – Una tale ispirazione prova che ho sognato!
«Tu resterai una iena, ecc…,» sbotta il demonio che m’incoronò di così graziosi papaveri. «Ti guadagni la morte con tutti i tuoi appetiti, e il tuo egoismo e tutti i peccati capitali.»
Ah! ne ho abbastanza: – Epperò, Satana caro, ti scongiuro, una pupilla meno irritata! E in attesa delle ultime piccole viltà, per te che ami nello scrittore l’assenza di facoltà descrittive o istruttive, stacco qualche schifoso foglietto dal mio taccuino di dannato.

NOTA

[1] Termine onomatopeico, che sta per “suono sgradevole”, “stonatura” “stecca”.

* * *

Traduzione: Carmine Mangone. Estratto da: Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno, Eretica edizioni, 2021. Illustrazione: ritratto di A. Rimbaud eseguito da Frédéric-Auguste Cazals e incluso da quest’ultimo in una lettera destinata a Catulle Mendès (1889).