[ Estratto dal mio Qui la vita, qui gioisci, Ab imis, 2024. Elaborazioni visuali: Viviana Leveghi. ]

Viste le tendenze solipsistiche della società contemporanea, e le virtualizzazioni indotte dalla tecnica moderna, l’affetto carnale tra i viventi rischia di diventare un’anticaglia. Queste mie stesse righe, tra qualche anno, potrebbero apparire inattuali, vecchie, improvvide.
Le tecnologie cibernetiche onnipervasive e la sempre più feroce individualizzazione dei viventi punteranno a un controllo sociale basato fondamentalmente sul distanziamento dei corpi e su una gestione informatizzata delle distanze. La democrazia compiuta sarà fondata sull’autogestione individuale e di massa delle proprie separazioni. I singoli umani, o presunti tali, si vedranno ridotti individualmente a un Io che avrà introiettato in modo stabile, flessibile e generale il Super-Io all’interno stesso delle proprie dinamiche psichiche, emozionali, culturali. Il cluster sociale democratico realizzerà l’utopia del potere, ossia il controllo totale degli assoggettati, il quale sarà però gestito direttamente da quest’ultimi, che risulteranno dunque sia i controllati, sia i controllori di se stessi. Avremo così un Leviatano diffuso, fluido, delocalizzato in una miriade di micropoteri materiali, psichici, nanobiopolitici, dove la concezione stessa di potere potrebbe diventare talmente sfumata da non essere neanche più percepibile o percepita. Il potere, beninteso, non sparirebbe, ma trasformerebbe le sue strutture e le sue rappresentazioni verticistiche, nonché la sua tendenziale orizzontalità democratica, in una politica del desiderio assunta da ogni cittadino.
Il desiderio del potere, che resta soprattutto un desiderio di durata, di autoperpetuamento, si trasforma in potere e valorizzazione sociale del desiderio. In altri termini, il potere diventa desiderio del desiderio [1], nonché gestione del desiderio inappagato (o perennemente rilanciato) attraverso gli infiniti concatenamenti o le continue variazioni degli oggetti stessi del desiderio.
Nelle società di massa, il potere trasforma progressivamente la necessità in desiderio, in cose e rapporti desiderabili, per poi redistribuirne i carichi attraverso meccanismi di partecipazione alle risorse sociali.
Diffondendo il valore del desiderio, il potere imbelletta la necessità (e il modo di produzione soggiacente) per far sì che diventi attraente anche l’indesiderabile. Si crea così una sovranità sociale del desiderio che tende a democratizzare i rapporti di forza e a mistificarli nelle dinamiche edonistiche di massa. La servitù volontaria si rimodella allora come servitù desiderante, adeguandosi alle necessità di un potere che si converte democraticamente in desiderio sociale della necessità.
È come se il potere – o, per meglio dire, l’insieme dei poteri – colonizzasse il territorio del desiderio e lo sfruttasse per evitare sconfinamenti ed evasioni da parte di coloro che vi vengono inclusi. I luoghi comunizzano il desiderio del desiderio, la base psichica della materialità autoritaria, e costringono gli individui a una circolazione nevrotica, a una circumnavigazione autistica delle proprie aspirazioni. In un tale spazio psicosociale, il desiderio nasce già con lo stigma dell’insoddisfazione e si vota a inseguire una durata problematica, accettando altresì un concatenamento sempre più precario tra le varie esperienze di godimento. Si giunge così all’assurda evenienza che sia il desiderio stesso ad accrescere le distanze tra i viventi e a condurli socialmente verso una gestione masturbatoria delle proprie soddisfazioni.
Molto banalmente, ci obblighiamo a inseguire il desiderio e a restare desiderabili, benché la nostra vita quotidiana, deturpata dalle illusioni e dal godimento idealizzato, lasci molto spesso a desiderare.
NOTA
[1] Il desiderio del desiderio è come un cane che si morde la coda: franamento dell’unicità in una valorizzazione nichilista dell’insoddisfazione, nonché perversione del desiderio in paura del desiderio e, per culmine del paradosso, in desiderio della paura stessa del desiderio.

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