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[ Estratti dal mio: Post adventum veris, 2024. Illustrazione: Viviana Leveghi. ]

Andando in culo a ogni nichilista del cazzo, la poesia è – e non può non essere – il tentativo divino d’allontanare le mosche dal volto sempre morente dell’amore.

*

Il divino. Questo fragore che mi mette in comunicazione con le tue mani, le tue impudenze, la tua sterminata area di fiducia.
L’accoglienza, il divino, il divenire di tutte le cose nel mio affidarmi. È la morte del soggetto in una notte trasparente. È il convincimento della poesia, il tenersi per mano nella sofferenza frantumata, nell’insolenza abbandonata. È la tua voce che scompagina le convinzioni di sempre, riportandole a casa per una determinazione mai occasionale. È il rito che investe il controllo, lo stupore che non ha più un sesso, l’innocenza senza ipoteche e senza costernazione dell’inviolabile che ci porta.

*

Per essere uno che è stato preso a cinghiate da piccolo
e a cui hanno puntato una pistola in faccia ben due volte,
ne ho fatta di strada
e ne ho scritte di poesie che vi stanno sul cazzo!

Risalire il torrente,
dimenticare l’ombrello,
perdersi, ogni dannata sera, fino a respirare uno
sdegno irredento.

*

Hai preso la mia testa fra le mani e hai accarezzato il muso all’animale che era lì da molto prima di un volto.
Contro la disfatta senile delle cose, hai riempito il mio corpo-ciotola col tuo sapere, le tue emozioni antiche, la tua fiducia illimitata verso tutte quelle parole che blandiscono l’indeterminazione della bellezza.
La faccenda dell’amore è un costante riconsegnarti alla decisione, alla vampa, al ristoro. L’affetto non è un refuso. La commozione prende per mano i giorni spossanti e li distoglie dalla cieca necessità. Noi non siamo neutrali. Il rito della carezza dice le mie devozioni (in morte della preghiera) e fa sì che la ciotola si mantenga piena.