[ Estratto da: V. Leveghi, C. Mangone, La materia dell’ulteriore, Delos Digital, 2024. Illustrazione: Viviana Leveghi. ]

[ a Viviana e alle mani tese per non darla vinta al vuoto tra le parole ]
Mi ero messo in viaggio piuttosto appesantito. Abiti invernali, neri. Pensieri indiscreti. Un margine cautelare di rischio. Non potevo prevedere, al mio arrivo, l’esplosione ridanciana della primavera.
Ho abitato talmente tante notti, durante i passaggi di senso e le sperimentazioni del destino, da non temere proprio per niente quel sottile strato di brina che si forma a volte sulle visioni estenuate.
Perso per perso, seguivo le tracce dell’amicizia e non distoglievo le parole.
Tra i peli della barba si annidavano i tepori buoni di certi aggettivi vinosi, nervosi, inteneriti dalla comune mancanza di paura.
Il racconto e la poesia, je le savais, cominciano daccapo soltanto quando riaffiora l’affetto.
Chiaramente, la tecnica non potrà mai dimostrarci perché quel dato seme germina nel deserto tra i vuoti lasciati dalle false vite. D’altronde, nessuna oasi sarebbe mai raggiungibile senza quella particolare concretezza riservata a un abbraccio tra gli elementi.
Quindi, anche quando ti reputi da solo – in preda a una qualche attesa: un’attesa di prossimità, un rilancio di formidabili aurore –, anche quando la gioia rimane un’ospite elusiva e tu ti chiudi a riccio nell’inerzia delle abitudini per non morire di troppa notte: l’amico futuro è già nel rumore che fanno i tuoi desideri, i tuoi entusiasmi oppressi dall’inverno, e tu te li ritrovi tra le mani, tra gli occhi, del tutto simili ad animali che escono dal letargo, improvvisamente lesti ad abbracciare la primavera imminente.
Ho preferito essere famigerato, anziché diventare famoso. E ho preso per mano chi si faceva tante (forse troppe) domande perché ritenevo che la cosa mi facesse un gran bene. L’amore e la bellezza, da soli, contrariamente alle apparenze, non sono mai stati delle risposte sufficienti.
Il perché della poesia – della com-unicità – risiede nel costruire una forza d’attrazione che possa incollarci al mondo senza per questo dover praticare una morte a ogni adesione. La poesia è il kintsugi di ogni spirito che si ostini a deframmentare gioiosamente l’esistente. Una specie di stravaganza nel movimento generale di tutte le cose, un’eccentricità orbitale, una deviazione dal cerchio magico della necessità che vorrebbe inghiottirci, conformarci.
Tra Achab e la balena bianca, alla fine, abbiamo scelto ironicamente il mare.