Tag

, , , , , , , ,

[Estratto da: Viviana Leveghi, Carmine Mangone, La materia dell’ulteriore. Elementi per una sapienza erotica, Delos Digital, 2024. L’ebook può essere acquistato sul Delos Store, nonché sui maggiori portali librari on-line, come ad es.: AmazonKobolaFeltrinelli o Fnac. Illustrazioni: Anna Malina.]

AnnaMalina--2

Per buona parte della mia vita adulta, ho amato il negativo (anzi, potrei quasi dire: ho fornicato col negativo) cercando in tal modo di trasformare radicalmente il mio piccolo segmento di cosmo. Credevo bellamente che un tale processo, attraverso un’adesione all’anarchismo storico, potesse alimentare un’erosione dei miei dubbi e portarmi a un livello di maggiore consonanza tra me e l’Altro. Invece, ho finito per dipendere, con non poca delusione, dai vuoti che la trasformazione stessa lasciava o poneva come pietre d’inciampo tra me e l’esistente.
Intimavo agli altri ciò che non volevo vedere in me stesso, confondevo l’immediato con l’impulsivo, cercavo di trasmutare la mia aggressività in una violenza giusta, casta, ma ciò che andava trasformandosi, intorno a me, non lo faceva grazie agli elementi propulsivi delle mie contraddizioni, né assecondando magicamente il mio desiderio. I miei interventi non risolvevano le contraddizioni. Anzi, le facevano proliferare. Il perché era presto detto. Partivo da una convinzione elementare, quasi sadiana; una convinzione che nasceva dalla mia esperienza personale della violenza e che si poteva ormai considerare una sorta di mia seconda natura: nelle relazioni concrete tra gli umani, e tra questi e l’universo, ritenevo che vi fosse un negativo irrecuperabile, irriducibile, e quindi, di conseguenza, una violenza ineliminabile.

(Questa convinzione di poter fare qualcosa per non temere più il nulla. Questa supponenza panica, quasi religiosa. Il mistero di rilegature che dovrebbero consegnarci al Libro ultimo della vita. Il fragore del pensiero che non riusciamo a governare e che nondimeno ci affida a una qualche dialettica spuria, zoppa. L’invenzione di concetti per profilare il tutto. L’improvviso colpo d’ala di un oltre che ci strega da sempre, e che si rivela l’assunzione critica di uno smacco, la portanza dell’impossibile, il planare leggiadro e rapace di una materia che muore in noi regalandoci un destino.)

AnnaMalina--1

Lungo il movimento del vivere, ossia in quest’animazione della materia che si chiama vita, sfugge all’umano, con ogni evidenza, la comprensione ultima dell’esistente. Tra la presenza materiale dell’umano e le riflessioni intorno a tale presenza finiscono così per aversi delle sacche di latenza, degli spazi non del tutto cartografabili, in cui il pensiero simbolico si rivela inane. L’uomo cerca allora dei «collanti universali» per tenere insieme il mondo e le proprie rappresentazioni di sé, dell’Altro. Uno dei suoi propositi essenziali, nel limite del possibile (e nell’impossibilità di porvi un limite), rimane infatti quello di spiegare e dispiegare la vita dentro il proprio pensiero. Malgrado i suoi sforzi, deve però accontentarsi di dare una semplice mano di vernice all’ingovernabilità dei mutamenti. La sua ricerca, se intesa come contenimento e consolazione, fallisce sempre. La verità eventuale della sua presenza, pertanto, starebbe meno nel fissare dei punti e più nel costruire tra di essi una continuità insieme all’Altro dimenticando la morte. Un tale transito, vale a dire la relazione tra noi, lo spazio e le varie collocazioni che assumiamo di volta in volta rispetto all’Altro, pone ancora e sempre la misura della nostra volontà, ma anche quell’insieme d’interrogazioni che ci fa procedere gioiosi, giocosi, impudenti e poeticamente faziosi proprio a partire dallo smacco inevitabile di ogni nostro pensiero sul divenire.

Se io faccio nostra l’idea di divenire, e mi vivo insieme a te come un segmento del tutto-che-scorre, come un diveniente singolare, non per questo mi separo dalla mia morte, né dall’universale e incessante ricombinazione della materia, poiché ritengo che si muoia completamente soltanto con la separazione di vita e morte, vale a dire con l’adesione, oltremodo ingenua, a un’idea dell’Essere che ci separi astrattamente dall’esperienza molteplice della nostra singolarità.
Il senso del mondo è l’unicità del diveniente che io desidero incarnare o abbracciare. La mia arte, il mio ποιείν, è il senso gioioso di un’attività singolare che non si riduce alla tecnica, alla padronanza delle cose, ma che cerca una connessione folgorante con altre unicità, con altri divenienti, in modo da costruire dei momenti sovrani di sospensione del tempo. Un collocarsi, un rinascere dentro la carne del noi, in un luogo tra corpo e corpo e non tra nulla e nulla o, per meglio dire, in un luogo dove la sentenza di vita che io sono, pur ignorando la causa del proprio principio, della propria voce, si mette in gioco sovranamente insieme a te contro ogni nientificazione della nostra presenza.

Nel dialetto napoletano, «giocare» si dice pazzïare. Il gioco, all’ombra del Vesuvio, è vissuto quindi come un folleggiare, come un divergere costitutivo dal piano della necessità normalizzante. Si fa «impazzire» un pensiero, un gesto, una parola, per non assuefarsi alla propria morte dentro la produzione materiale delle cose e dei rapporti.
Contro l’idea religiosa di una totalità procrastinata in un qualche aldilà (il paradiso, il «sole dell’avvenire»), noi giochiamo con le grandi ambizioni del nostro rigore, con la tremenda bellezza di un tentativo poetico, ma anche e soprattutto contro la labile sufficienza di ogni appagamento.
La parola poetica rilancia la vita combattendo anche le battaglie della morte, mentre l’uomo contemporaneo, in balia della sua confusione valorizzata, torna ogni giorno a riempirsi la bocca di buone intenzioni per sentirsi poi libero di massacrare tutte quelle contraddizioni che non riesce più a dire (o che, forse, non ha mai avuto il coraggio di dire).
La parola poetica narra questa confusione e costruisce una segnaletica per uscire dal labirinto. Ma la narrazione non basta. Urge una critica generale del senso di vuoto, come pure una critica particolare dei vuoti di senso. A ogni svolta dell’affetto, occorre creare una nuova fiducia verso il verbo, oppure zittirsi onde ritrovarsi in una consonanza che sospenda tutte le parole abusate.
La vita è una retorica della materia, non un pleonasmo di Dio come abbiamo creduto per millenni.