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Il pensiero può apparire manchevole, il nostro pensare può venir considerato un’incessante diserzione delle carovane, una continua escavazione nel deserto, ma in questa manchevolezza, in questa nostra stessa diserzione, accettandole come altrettante carezze verso l’ulteriore, noi costruiamo la potenza per sentirci veri, puri, e per farlo insieme.
Beninteso, la nostra non è una forma filosofica di presunzione. Verità e purezza sono lacerazioni che provochiamo per far sì che balugini l’eterno attraverso i rami e i tagli del giorno. Esse emergono dall’oltrepassamento di ogni giudizio, di ogni bilancia. Accordano intese. Promettono leggerezze. Non si tratta di una felicità precaria derivante da un godimento valorizzato, bensì di una grazia comune e accomunante che ci rende vetusta e insopportabile qualsiasi istanza sacrificale. Il dolore c’è, ma non diventa un abito. L’intesa e l’intendere presuppongono ogni volta un nido di tensioni, ma non un labirinto in cui perdersi.
Il segreto sta nel credere impossibile la morte definitiva (e sormontabili le definizioni della morte) costruendo esili ed elastiche passerelle tra gli elementi del cosmo. Il risveglio non verrà dall’igiene solipsistica dei monaci. L’unicità delle presenze si rivela infatti inessenziale, meramente didascalica, se non costruisce una com-unicità dei loro slanci, delle loro sofferenze, dei loro tepori.

I nostri affetti muoiono. Noi stessi siamo destinati a ricombinarci nella bellezza scandalosa dell’ignoto. Eppure, non possiamo impedirci di sorridere alle primavere che portiamo e che non riusciremo a vedere, perché eravamo già nella linfa dell’albero della conoscenza che Dio difese invano dalle nostre pretese e saremo pur sempre nell’abbraccio delle particelle di una lontana intelligenza del cosmo che ci ricollocherà conversi e confortati in una dimensione finalmente libera dalla viltà del tempo e dalle lacrime dell’orgoglio.

Laureana Cilento, aprile 2025. Foto mia: un piccolo pesconoce nato spontaneamente tra le violacciocche.