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Estratti da: René Char, Comune presenza, accompagnamento alla lettura di C. Mangone, Nautilus, 2025 (pp. 17-18). Nella foto: René Char a Ribaute, agosto 1966 (alle sue spalle: un pannello di Joan Miró).

Il poeta, come sappiamo, mischia la mancanza e l’eccesso, lo scopo e il passato. Da qui l’insolvenza della sua poesia. Egli è maledetto, cioè assume pericoli perpetui e rinascenti, nella misura in cui rifiuta, a occhi aperti, ciò che altri accettano a occhi chiusi: il profitto d’esser poeta. Non può esistere un poeta senz’apprensione, così come non può esistere una poesia senza provocazione. Il poeta attraversa in solitaria tutti i gradi d’una gloria collettiva dalla quale, a giusto titolo, viene escluso. È la condizione stessa per sentire e dire in modo giusto. Quando perviene genialmente all’incandescenza (i presocratici greci, Teresa d’Avila, Saint-Just, Rimbaud, Nietzsche, Van Gogh), egli ottiene il risultato che conosciamo. Aggiunge nobiltà al proprio caso quando esita nella diagnosi e nella cura dei mali dell’uomo del suo tempo, quando formula delle riserve sul modo migliore per applicare la conoscenza e la giustizia nel labirinto politico e sociale. Deve accettare il rischio che la sua lucidità venga giudicata pericolosa. Il poeta è la parte dell’uomo refrattario alle combinazioni. Potrebbe esser chiamato a pagare qualsiasi prezzo per un tale privilegio o fardello. Deve sapere che il male vien sempre da più lungi di quanto si creda, e non muore necessariamente sulla barricata che abbiamo scelto a causa sua.

[Testo preso da: René Char, Dans l’atelier du poète, Quarto Gallimard, a cura di Marie-Claude Char, Paris, 2007, p. 551. Si tratta della risposta di R. Char a un’inchiesta lanciata dalla rivista «Esprit» e apparsa sul numero del luglio 1948.]

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Nota di Carmine Mangone:

Si noterà in Char una caratteristica assai diffusa nei poeti della contemporaneità. Da Baudelaire in avanti, uno dei temi portanti della scrittura poetica è la scrittura stessa, il senso stesso della poesia. Pur essendoci in ciò un quantum di autocelebrazione e narcisismo, pressoché ineliminabili nelle dinamiche psicologiche innescate da una società che tende a individualizzare gli umani e a separare gli individui, il carattere generale della poesia moderna si fonda precipuamente sulla contraddizione tra forme di vita e forme di linguaggio, e sulla conseguente ricerca di una relazione armonica, o almeno non conflittuale, tra le une e le altre. Diventa essenziale una costante riflessione sul concatenamento tra teoria e azione, tra etica ed estetica, tra dinamiche di pensiero e strutture di gestione del reale. Un tale affinamento di prospettiva si pone un obiettivo ben preciso: ridurre sempre più le distanze tra le espressioni dell’umano civilizzato e la vita quotidiana. La poesia, in tal modo, diventa attitudine critica (e finanche belligerante, sovversiva) nei confronti dell’esistente. Si scrive allora non soltanto per piacere o dispiacere, per abbellire il reale o definire sempre più incisivamente la bellezza, ma anche e soprattutto per trasformare la vita e imbastire un concreto saper vivere.
In altri termini, il poeta attuale continua a scrivere, a esprimersi, a usare le parole, i segni, ma, al tempo stesso, mira concretamente, col proprio intervento, a indurre una sorta di mimesi poetica, di dinamica virtuosa in grado di generare un effetto comunizzatore, critico e proliferante degli elementi di bellezza.