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La parola italiano «bello» deriva dal latino bellus, derivato dall’arcaico duenelos, che è diminutivo di duonus, da cui proviene anche bonus, «buono». Il termine duenelos discende dalla radice proto-indoeuropea *dew-, derivata di *dyew-, «cielo», «eden», e, per estensione metonimica, «splendente». Da tale radice derivano, tra gli altri, i termini indoeuropei per «dio», come il sanscrito daeva e il latino deus. Medesima radice avrebbe il latino bellum, da cui «bellico», il che implicherebbe una connessione originaria (non certo meramente rituale) tra divino, bellezza e manifestazione sociale e distruttiva della potenza.

Lei rifiorisce, si scorteccia
insemina, si dissemina
lungo una commedia di parole
gli sfrangiati margini
d’una bellezza che martella

e sotto la lingua
all’interno della coscia
ancòra una perla
per le notti in demolizione

Agli albori della bellezza, nel divenire di un senso che pose le fondamenta dell’umano, ci sono forme di un dio intuìto, surrogati della magnificenza azzurra o stellata del cielo. Abbiamo così un distacco dalla pena del vivere, dalla coscienza della morte, una ricomposizione tentata e reiterata delle separazioni tra l’umano e il mondo simbolizzato, lavorato, trasceso.
La bellezza è sempre una costruzione, un concatenamento di forme e contenuti determinati. Neanche il cosiddetto «bello naturale» si presenta avulso da un sovrappiù di senso storico. Un tramonto o un prato fiorito, le cui presenze ci deliziano da tempo immemore, non sono mai stati semplicemente un tramonto o un prato fiorito. Ciò che qui si chiama «sovrappiù di senso storico», vale a dire le dinamiche estetizzanti del pensiero, nasce sia dal desiderio di distanziarsi piacevolmente dalle necessità naturali e sociali, sia dal tentativo di edulcorare queste stesse necessità in un àmbito che valorizzi esteticamente le loro contraddizioni.

Fino all’epoca contemporanea, la bellezza è stata una considerazione essoterica di Dio. Ogni sua manifestazione si poneva come appendice del sacro e si voleva come redenzione «tascabile» dai limiti della mortalità.
In questa ricerca di una conciliazione tra divino e umano, ogni frammento della bellezza proponeva una miniatura del Tutto, una blandizie dell’Universale, un cerchio magico di segni e azioni all’interno del quale si proponeva un’idea della perfezione o si criticava bellamente l’imperfezione dell’idea.
Con la stagione otto-novecentesca delle rivoluzioni, abbiamo avuto invece il tentativo di una pratica immediata e tendenzialmente unitaria della bellezza. L’opera si è andata trasformando in operatività. Il bello è diventato uno degli strumenti principe per una ricomposizione pratica di quella vita activa ridotta in frammenti e smerciata al dettaglio dalla società borghese. Si è cercato quindi d’agganciare la bellezza a un principio d’efficacia, con lo scopo di rendere più bella e più giusta la vita quotidiana, in modo da incarnare socialmente le tensioni poetiche della ricerca estetica.

Credere nel bello. Credere che questo sia bello. Credere che questo sia ancora una parte del bello. Il questo. Il questo delle parole che io dico senza dirmi. Il questo che non mi dice mai del tutto. Il questo che è il noi che dice e si ridice in me senza che io ne tradisca il dire. Credere che questo sia bello. Che questo possa essere più bello di una corteccia, di un pianto, di una folgorazione. Sorridere nell’errare. Credere nell’errore che mi arride. Errare nel credere. Non fermarsi mai. Chi si ferma è forse creduto? Il bello di ciò che resta dopo il tocco, sul farsi toccante dell’erranza, nel dire sempre errante del fare e disfare. Benedetti ragazzi! Da quand’è che il disfacimento è diventato un dir facimento? Contrariare la negazione. Annegare il contro. Affermare l’incontro nel sorriso che mi erra. Per le domande a venire, il dar contro non può più essere un dar di conto.

— Laureana Cilento, 2025. Fotografia mia (fiore di carciofo).