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autonomia, com-unicità, determinismo, frattalità degli affetti, Georges Bataille, incarnazione, meditazione viziosa, mutazione, neurorivoluzione, prendersi cura della poesia, saper lottare, saper vivere, scorporamento, Wifredo Lam
Continuano le mie riflessioni. La prima parentesi si riferisce al gruppo di appunti precedente. Le opere pittoriche sono di Wifredo Lam.
(Mi si perdoni l’apparente tautologia, ma io rimango dell’avviso che il senso delle cose debba farsi sensibile, e dunque afferrabile, trasmissibile, «incarnabile». Onde per cui, ci tengo a ribadire un concetto che considero basilare e ormai irrinunciabile.
Dopo Auschwitz, dopo Fukushima, dopo Gaza, dopo tutti gli innumerevoli orrori della storia umana, prendersi cura della poesia significa seminare, piantare alberi, recuperare saperi primari che vanno perdendosi, sviluppare la critica, scrivere, creare forme di bellezza, sorridere agli estranei, raccogliere cuccioli per strada, credere ancora nell’imprevedibile, nella meraviglia, ma soprattutto, in estrema sintesi, vuol dire saper lottare per infondere un senso di compiutezza alla nostra presenza sulla Terra.
In altre parole, e lo sottolineo per l’ennesima volta, ciò che io intendo per «poesia» è quel fare che ci consente di costruire e di condividere delle esperienze di vita concrete, pregne di senso, e non banalmente un recinto specialistico dove i «chierici» si limitino a scrivere versi e a discettare di scrittura parlandosi addosso.)
Nel regno teorico del possibile, non è inferibile nessun colpo di grazia. Ogni significante può cambiare d’abito da un momento all’altro, da un pensiero all’altro, anche inopinatamente. Con buona pace di Boileau, un gatto non è più semplicemente un gatto. A furia di mettere a fuoco i nomi, c’è il rischio di ritrovarsi con un bel cumulo di ceneri. Nondimeno, abbiamo sempre più bisogno di una dimora, d’un territorio amico per i significati che rifiliamo alla nostra materia «animata». La soluzione non sta però nell’allargare a dismisura l’area di pertinenza dell’umano infittendo in maniera iperbolica le connessioni, né tanto meno nel ridurla funzionalmente a una gabbia dotata di tutti i comfort. D’altro canto, pare ormai impossibile poter dislocare l’umano in un altrove che si riveli impermeabile alla tecnica. Dovremo dunque accettare l’ibridazione con le macchine accogliendo il loro strapotere nella configurazione e gestione dei numeri e dei costrutti linguistici, oppure si dovrà aprire uno «spazio quantistico» per qualcosa che oggi appare quasi inconcepibile, vale a dire una sorta di mutazione dell’umano, capace magari un giorno d’abbandonare numeri e parole per scoprire una nuova dimensione, un nuovo modo relazionale, cosmico e incolpevole tra tutti i viventi.
(Dentro la meccanica del pensiero, il problema sono le definizioni o non piuttosto le determinazioni che ne scaturiscono governando e separando i viventi?)
Nel dominio della società cibernetica, la pratica dell’autonomia diverrà impervia, criminosa, addirittura impensabile. Sarà sempre più difficile riconoscere la morte buona e la definizione amica. Tuttavia, in quanto vivente singolare, in quanto emergenza di una determinata unicità psicofisica dal divenire di tutte le cose, io resto pur sempre una contraddizione della «totalità», una critica vivente della materia che non si vuole astrattamente delineata dal pensiero umano – e dal suo stesso pensarsi. Il mio corpo è ancòra la sacca di resistenza di una singolarità (di una eccentricità) che si vuole indifferente alle riduzioni operate dalla ragione. Una tale indifferenza è il rovescio non della morte, non dell’umanità dolente, bensì della vita subordinata, asservita, contrariata. È un’apertura, non un tentativo d’evasione. È un restar neutri di fronte ai binarismi, ai manicheismi sorti dall’introversione economica della disponibilità, non certo una passività, né tanto meno un’inerzia.
Il grosso dell’umanità crede ancora di essere destinato a qualcosa: servire un dio, una bandiera; colonizzare Marte; costruire in laboratorio una postumanità capace di vincere la morte.
Eppure, in qualsiasi subordinazione esistenziale di carattere finalistico, teleologico, per quanto la si svincoli magari dal deperimento biologico, occorrerebbe affrontare il conflitto tra gli elementi del mondo affinché se ne sappiano trarre delle forme capaci di dar corpo a una compiutezza dell’attimo. L’immortalità non garantisce la permanenza del senso. Anzi, l’eventuale vittoria sulla morte, e lo sconvolgimento conseguente di ogni approccio finalistico storicamente determinato, non assicurerebbe in automatico quegli squarci di contezza e di contentezza che nascono dalla soddisfazione di chi sormonta criticamente e appassionatamente la lotta contro la necessità.
Ogni determinismo è una sorta di percorso obbligato, di strada a senso unico dove le determinazioni del possibile diventano atti di fede o congetture costituenti una vera e propria macchina astratta.
La linearità tendenziale che si può applicare alla progressione dei fenomeni fisici o sociali è una deformazione prospettica. L’universo non ha alcuno scopo e il divenire, da qualunque parte lo si affronti, non è affatto inquadrabile in un circuito chiuso, se non macchinalmente.
Zero, uno. Uno, due. Il giorno e la notte. Due mani, due occhi, due gambe. Il binarismo consustanziale del pensiero simbolico. Le due parti da riunire. Il sýmbolon. La base 2 del mondo digitale. Il coito che incastra (in tutti i sensi) due corpi, due sessi. Un labirinto di diadi dal quale sembra assolutamente inconcepibile uscire. Eppure, da qualche parte, ai confini del possibile, al verificarsi magari d’un evento cataclismatico o alchemico, potrebbe aprirsi un’ipotesi di frattalità, di ricorsività accresciuta e beante della materia «animata»: una sorta di neurorivoluzione, un vertiginoso aumento delle facoltà cerebrali, una vera e propria mutazione della mente, il che comporterebbe per il genere Homo uno stravolgimento del tutto simile a quello avutosi col raggiungimento della stazione eretta.
Rileggendomi, mi accorgo della «mostruosità» di talune mie frasi. Certe idee, ne convengo, sono congetture che accettano l’azzardo di una proiezione mentale spropositata. Nondimeno, solo spingendomi agli estremi di un’allucinazione pilotata criticamente e poeticamente posso allargare il mio territorio mentale e sormontare l’insufficienza della mia incarnazione senza fossilizzarmi in idee già pensate.
L’ottimismo è un biglietto di sola andata, ma occorre comunque un metodo, bisogna darsi un rigore metodologico e sommamente gioioso (niente sport, niente svagatezze, niente bagatelle orientaleggianti) per far sì che le esperienze poetiche vadano a rilegarsi in un processo di affinamento e difesa della nostra incarnazione, vale a dire della chance che abbiamo avuto col nascere, col ritrovarci dentro un corpo senziente in questo scorcio d’universo. Non un nuovo metodo «ateologico» di meditazione, come aveva tentato Georges Bataille, non un processo di mero depensamento delle convenzioni sociali e culturali, bensì una pratica di scorporamento singolare e di gruppo dalle abitudini di pensiero e di relazione storicamente determinate. Scorporamento come diserzione, come capacità di non collaborare all’inessenziale o all’inquinamento emotivo che assoggetti la nostra unicità.
L’esistenza, per come dovremmo conoscerla, non è una «valle di lacrime». Si muore, si soffre, certo, ma questi non sono dei motivi sufficienti per rendere ancor più spiacevole la propria persistenza in un particolare e temporaneo coagulo di energie. Sulla mancata accettazione della morte, e su una insufficienza più o meno colpevole del vivente, si fondano tutte le religioni. D’altronde, se non si ritiene «innocente» la vita, non si comprende affatto come si possa credere all’innocenza dei mezzi messi in pratica dall’uomo, compresi quelli ritenuti più elevati. Calando sperimentalmente ogni asserzione filosofica o religiosa nella vita quotidiana, si finisce inevitabilmente per mettere in crisi i metodi dei saperi acquisiti che fondano le fedi (ciò che ne rimane), come pure il pensiero contro di esse. Beninteso, una tendenziale stabilità del pensiero è necessaria alla relazione tra umano e mondo, ma se una tale stabilità non costruisce una consonanza tra i diversi elementi del cosmo e diventa rigidità di forme, finisce soltanto per istituire e istituzionalizzare una mera sopravvivenza.
La ricerca della «virtù» non può più essere disgiunta da un approccio critico e curioso nei confronti del «vizio» (Sade rimane pur sempre ineludibile). La solitudine dei saggi non va confusa con l’isolamento dei moralisti. Dev’essere ripristinato e praticato un sincero entusiasmo verso l’essenziale. Ogni forma di moderazione andrà accantonata in favore di un rigore tendenzialmente «vizioso» e mai aprioristicamente «viziato». Andranno riscritti i ritornelli dell’umano. Si pregherà soltanto per assecondare un desiderio privo di compromessi e capace altresì di non generare subordinazioni. Per quale motivo dovremmo ridurre la mente a un pensiero forzoso, servile? Non è forse già abbastanza limitata la nostra intelligenza dalle dinamiche che cercano di conformarla quotidianamente alle necessità sociali e all’acquiescenza? Anziché limitare tanti pensieri in aree ristrette, è molto meglio un solo pensiero forte che si renda amico di tutta la potenza possibile del nostro affetto.
Laureana Cilento, luglio 2025 (continua – 4).


