Una delle credenze più stolte dell’umana congerie è quella che ti fa presumere d’esser solo e negletto dentro la tua vita, e che tu, particola disperante del possibile, possa quindi soltanto benedire ciò che ti cautela dal sentirti ulteriormente disgiunto dal tuo inespiabile nulla.
Non c’è pensiero più imbecille di questo.
La vita di una singolarità «animata» incorpora inestricabilmente tutti gli eventi e le potenzialità che costituiscono ciò che si può chiamare destino, possibile, divenire.
Il nostro scandalo non sta nella morte, bensì nel subordinarci alla produzione di una sopravvivenza generalizzata, di una miseria arricchita, di un lento morire customizzato.
Quando finalmente riusciremo a vedere il mondo così com’è insieme a noi, mano nella mano o spalla a spalla con l’Altro, potremo soltanto riderne di gioia.
La nostra presenza non è un uccello morto. Non si muore di sola morte.
Il pensiero che sa ridere affettuosamente del nostro morire ci solleva e ci proietta al di là della speranza, perché possiede in sé già le ali di una potenza gentile, insubordinata, a prova di qualsiasi burrasca.
Terzo esercizio del giorno: imparare a tagliare l’avvizzito e il superfluo preservando con cura l’essenziale che ci conduca all’accordo, al sempreverde. Osservare attentamente l’albero della nostra vita e decidere quali presenze conservare e quali conoscenze andranno potate. I polloni dell’invadenza altrui, i rami contorti delle contraddizioni che minano la consonanza, quelli secchi delle idee morte: va tagliato via tutto! Solo così apriremo dei varchi ai nuovi ributti invitando a casa nostra la bella stagione.
Per non fare un torto a coloro che ci amano, vorremmo sempre che la nostra vita fosse il bene e che la nostra presenza attestasse le migliori eventualità del bello. Presunzione comune, ma non per questo scusabile.
In fondo ai nostri pensieri, tra le tenebre e l’aurora, dobbiamo conoscere e dare un nome anzitutto alle nostre debolezze, perché le nostre debolezze non sono soltanto una parte del nostro dolore, ma anche ciò che annuncia immancabilmente il dolore che potremmo passare all’Altro.
Preso da solo, lo snodarsi della scrittura – e del pensiero che essa sottende, blandisce e cerca di portare alla luce – non mi affranca dai miei limiti. La letteratura non è mai stata una cura bastevole. Però le parole, nell’osservazione passionale e intransigente delle nostre debolezze, mettendo a fuoco le mancanze del pensiero, possono aiutarci quantomeno a individuare i percorsi e le andature per schivare gli orpelli culturali autoconsolatori e per farci concentrare più scopertamente sui tic psichici e sui nodi storici o familiari del malessere.
Una parola è buona quando la vita la sottrae alle nostre incertezze ridandole senso in un’esperienza che torni a vederci protagonisti.
In ambito affettivo, bisogna che i segni e le espressioni linguistiche abbiano un senso rigoroso, rispettoso, sempre in divenire. Un «ti amo», per quanto indirizzato responsabilmente, non può mai diventare una gabbia, per nessuna delle parti in gioco. Non si può essere così stupidi o insensibili da ritenere che l’amore venga al mondo per noi. L’affetto responsabile va costruito, curato, esaltato con rispetto. L’Altro finisce inevitabilmente per essere inserito in dinamiche che tendono a oggettivare la relazione, ma egli/ella non è un oggetto, non esiste allo stesso modo in me e fuori di me.
Bisogna inventarsi un modo che chiami l’Altro e lo convinca a venirci incontro facendo di noi i suoi complici e la sua ombra ristoratrice. Il bene non è un mero discorso di principio. I miei affetti e i tuoi affetti devono diventare sinonimi e dare una nuova veste transitiva alle rispettive incarnazioni che vanno accordandosi.
Laureana Cilento, 16-17 agosto 2025 (continua – 10). Nella foto (presa dal web e scattata nel 2019 sul Caucaso): una pecora “ringrazia” il cane che ha difeso il gregge dall’attacco di un predatore.

Grazie 🙏
Grazie a te, Sandro. Un abbraccio.