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La mia nonna paterna usava accendere un lumino tutte le sere. Lo faceva per tenere viva la memoria di un figlio scomparso in giovane età: un mio zio morto l’anno prima che io nascessi e del quale porto il nome.
Il lumino in questione era formato da una piccola scatola di latta, a pianta circolare, piena d’olio d’oliva fin quasi all’orlo, sulla cui superficie veniva adagiata una croce di sottile lamierino che riusciva a galleggiare grazie a quattro pezzetti di sughero infilati alle sue estremità. Al centro della croce poggiava lo stoppino, ricavato dall’infiorescenza seccata di una pianta originaria dell’Egeo meridionale, la Ballota pseudodictamnus. Imbevuto d’olio, e con la parte inferiore sempre a bagno, lo stoppino veniva poi acceso e la fiammella poteva durare anche tutta la notte. Metodo antico, a quanto pare. Si dice che fosse stato ideato dalle monache di un convento del Vallo di Diano…

Se la morte è una sorta di pregiudizio che colpisce la materia, si può credere che la memoria, ossia la costruzione e la difesa del memorabile, sia un accorato e strenuo intervento contro l’invalicabile paura della scomparsa.
Ricordare fa male, lo abbiamo già detto, ma questo stesso male, se rapportato alla dissipazione ultima di tutto – e alla voragine che s’apre nei cuori dell’umano al cospetto della morte –, può essere vissuto come un estremo conforto.
Il ricordo è un’esperienza del già vissuto, del già esistito, che concede una presenza affettuosa, critica o spaventevole al non più esistente.
Governiamo i ricordi per continuare ad amare, a migliorare noi stessi, il mondo, oppure per mantenere la nostra inquietudine dentro una morte storicizzata, familiare, sostenibile. Non siamo semplicemente la nostra vita. Noi siamo più volte ciò che ci circonda e ci muore intorno. Presi singolarmente, in un modo comunque avventuroso, siamo coloro che possono personificare, in due movimenti tra loro complementari e sempre compresenti, sia i vivi che attentano alla propria sorte giocandosela fino in fondo, sia i morti che impariamo ad essere cercando di non farci troppo male. Questi due movimenti costituiscono la nostra lotta affettuosa – la nostra presunzione mortale – contro il cosiddetto «destino».

Il rituale che lenisce il dolore. La significanza di una cerimonia «domestica» che renda presente e mai fuori luogo un certo passato. Il ripetersi di quei gesti affettuosi capaci di fare spazio al futuro accettando con gentile distacco l’intrapassabile divenire di tutte le cose. Il lumino di mia nonna (me ne sono costruito intanto uno simile…), le foto attaccate al frigo che passo in rassegna quando cucino o mi faccio un caffè, l’akua’ba​ di Silvana che carezzo tutte le volte che mi soffermo davanti al vecchio comò in camera da letto…
Ci sono morti che non muoiono mai del tutto; ricordi che diventano un sovrappiù di senso, un diaframma tra le nostre vite e la realtà eccessiva della morte.
Ogni rilancio può dipendere dal capriccio o dall’insistenza d’un ricordo. Ogni morte ha il suo proprio limite nelle parole o nelle immagini che ci aiutano a conservare una familiarità rispetto al senso ultimo che diamo alla nostra presenza, alla nostra ricerca. Un’improvvisa assenza diventa allora una possibilità, una nuova origine, oppure un ritorno incessante a quell’origine dei propri affetti, più o meno rabberciati, più meno tonificati, che può rivelarsi la nostra autentica meta.
Si continua dunque a interrogare l’esistente senza mai voltare le spalle alla morte di ciò che ha puntellato e sostiene tuttora le nostre risposte. Malgrado la morte, va costruita una pazienza della ricerca che sappia controbilanciare l’impazienza delle domande; una pazienza che sia continuità, fermezza, lucidità, perché l’ultima delle nostre risposte deriva pur sempre, in qualche modo, dalla prima domanda che fu del vivente.

Laureana Cilento, 30-31 agosto 2025 (continua – 13). Foto mia.