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La colpa di sentirsi umani. Oppure la colpa di non essere abbastanza umani. E ancòra: i sensi di colpa di chi mangia tutti i giorni pur non avendo il coltello dalla parte del manico. La mancanza di connessione con la materia dei propri limiti. I bisogni superflui che diventano castranti. Le gioie a bassa intensità comprate sui banchi del mercato. La noia. I sensi di colpa che attanagliano tutti quei servi che si sentono, in cuor loro, un po’ meno servi di tanti altri.

Leggendo a modo mio i rimasugli di realtà, non riesco a comprendere le indecisioni di tutti coloro, e sono tanti, che, pur volendo un mondo migliore (almeno a parole), e benché vivano in luoghi relativamente tranquilli (l’Occidente senza guerre e senza più una reale penuria), si lasciano comunque schiacciare dalla paura e dagli eventi drammatici della Storia. Si tratta di uomini e donne, più o meno giovani, che fanno riferimento soprattutto a ciò che resta della cosiddetta Sinistra. Il loro disorientamento è la cifra dell’umano che si sfalda intorno a un’idea di libertà sempre più zoppicante. I loro timori rappresentano l’apice di una falsa coscienza ormai generalizzata e che è il rovescio (l’altra faccia della medaglia) di un’insoddisfazione sovente occultata dietro un opinionismo diuturno, onnicomprensivo e la cui efficacia viene corrotta da una virtualizzazione sempre più spinta delle proprie posizioni culturali e politiche.
La stragrande maggioranza degli umani civilizzati residenti in un Occidente vetero-colonialista, imbevuta com’è di un egemonismo coloniale di natura sempre più digitale, verrà costretta e si costringerà (sta già avvenendo) ad essere incessantemente connessa alle reti digitali e a tutti gli impianti nanobiotecnologici che seguiranno. La macchina desiderante di deleuziana memoria, già da un pezzo, si va trasformando in un desiderio macchinico, indotto, sistemico, customizzato. Il consenso è un continuo remix di volontà irriflesse e dinamiche algoritmiche. Le parti in gioco non avvertono neanche più la reale concretezza di una generalità e il loro pensiero si adegua velocemente al diminuire di ciò che possiamo definire come un limite di overflow della mente umana contemporanea. L’individualità viene prodotta attraverso ciò che il singolo vede frammentariamente, nonché per come egli si vede grazie all’ottica sociale dei dispositivi connettivi di massa; si produce un Io che si conforma ai valori e agli enunciati sociali sempre più facili e smozzicati allontanandosi dalla molteplicità dei possibili, ossia dall’abilità di costruirsi una propria autonomia (un senso molecolare e singolare) lungo le varie diramazioni del divenire.

Laddove si palesa la fine eventuale di tutto, ogni frammento del reale può assumere una rilevanza tenera, compiuta, micidiale.

La scrittura che tenta di dire le trasformazioni, stabilendosi dentro una possibilità di gioia, deve mantenersi in consonanza sia con gli eventi che la precedono, sia con quelli che la seguono. La poesia che emerge dal testo, ossia la parola che si scrive e che ci inscrive nel possibile ulteriore della compiutezza, deve parlare agli eventi, deve sollecitare l’eventualità, e non limitarsi a produrre testi destinati a un libro, a un recinto d’enunciazioni.

Il divenire è la moltitudine incontornabile degli elementi che si muove grazie alla singolarità di un corpo.

Se la tecnica sopprime la distanza e, con essa, anche l’esperienza della critica che nasce dai movimenti di prossimità tra i viventi, si esce dalla dimensione monologante dell’Io – dalle sue parole abitudinarie, dai suoi silenzi orfani di senso, come pure dalla ricerca «domestica» di un noi – solo ricreando una tangenza affettuosa tra i corpi senzienti che si riconoscano labili e irripetibili.

 

 

Vedere gli altri viventi (gli umani, gli olivi, i gatti) come altrettante griglie di comprensione del possibile. Toccare la pelle grinzosa di un rospo e sentire la bellezza irriducibile di ciò che non conosco e che nondimeno accolgo prima che cali quella che sarà (solo apparentemente) la notte definitiva della mia presenza.

– Erano giorni in cui cercava di ricordare come si presentasse al tatto la corteccia degli alberi. Si rammaricava di non averne accarezzati abbastanza. L’arcipoesia del tocco, si diceva, non sospende l’inquietudine, l’interrogazione, ma si presta e ci consegna naturalmente al più caro indugio, al più intimo vegliare, al più consono bisbiglio della nostra materia.

Laureana Cilento, primi di ottobre del 2025 (continua – 19). Le foto sono mie.