Tag

, , , , , ,

Quando muore un bambino o un animale, non dovrebbe intristirci la morte di un presunto innocente, bensì l’inesplicabile e definitiva interruzione di un divenire.
Noi crediamo all’innocenza di certe morti perché abbiamo finito per credere a una preconcetta colpevolezza della morte. In realtà, l’innocenza è un’invenzione dei moralisti che governano le mancanze sociali della vita, laddove la morte, l’ineluttabile fine biologica dei viventi, sganciata dalle sue eventuali implicazioni storiche, non reca in sé alcuna responsabilità.

L’idea di colpa si afferma nelle relazioni tra gli umani tormentati dalle proprie inquietudini e dalle proprie debolezze. La colpa nasce infatti storicamente dentro i rapporti di potere ed è sollecitata continuamente dai detentori dell’autorità (dalla sacralità istituzionalizzata del potere) in modo da tenere i subordinati in un funzionale stato d’insicurezza. Questi ultimi, a loro volta, si appigliano sovente a un qualche senso di colpa più o meno conscio per autoassolversi e legittimare la propria inerzia, la propria passività cronicizzata.
Come ha scritto mirabilmente Joë Bousquet: «Vi sono obblighi solo per l’uomo in balìa dell’inquietudine». In coloro che si muovono invece nel territorio dell’autonomia e dell’imponderabile, la ricettività critica dell’intelligenza tiene a bada la porosità emozionale e tormenta le ombre del pensiero facendole fuggire dinanzi a sé.
Il vivente consapevole della propria unicità psicofisica, colui che non cede l’usufrutto della propria forza alla società degli uomini, va creandosi, insieme ai propri veri simili, una sorta di legittimità cosmica al cospetto del destino. Le sue sole regole prendono forma e fondatezza nei segmenti di senso che egli strappa all’indistinto in compagnia degli amici e dei miliardi di stelle che sente adiacenti alla propria avventura. Egli s’immagina il russare delle galassie, l’improntitudine dei rampicanti. Egli respira tra le fronde degli olivi e nella scia di una cometa. Vuole assomigliare sempre più al fondo del cielo, a un albero sempreverde o a un piccolo predatore che si nasconda nel sottobosco odoroso e fermentante. Il suo obiettivo primario (e ultimo esercizio del giorno) è stare senza più pensieri dentro l’assoluto mondo, generando in sé e intorno a sé quel connubio definitivo tra giudizio e rispetto che gli permetterebbe di sopravanzare magnificamente qualsiasi idea preconcetta sulla vita.

Ho amato sinceramente e imperfettamente tutti quei viventi (umani, animali) che, una volta postisi di fronte all’uomo intrattabile che potevo essere, mi hanno indotto e spesso forzato a determinare e a mettere in comune i miei limiti, le mie paure.
Soltanto le complicazioni del bello pervertono le nostre mancanze rendendoci davvero permeabili alle dinamiche di cambiamento. Solo liberandomi dalle idee inveterate che ho sul mondo, e che sono frutto di una stratificazione dei condizionamenti, delle scelte, delle contraddizioni, come pure delle comodità di pensiero, soltanto sgombrando dalla gravità del pensare la riflessività naturale del mio corpo, in questa linea di fuga dal consueto che è anzitutto un espropriare alla morte la materia della mia riflessività, soltanto in questo processo di riconoscenza posso aspirare a trovare realmente un senso e a smettere d’interessarmi al presente, alla Storia, divenendo presenza e rilancio di presenze nella contiguità dei diversi piani della vita e della morte.

La trasformazione, intesa qui come caduta dentro un divenire, anticipa o allontana la morte? Il nostro pensare finisce per allungare il tempo o lo contrae? Dove si apre, dove si attesta, dove fa testo la disgiunzione inclusiva tra pensiero e morte?

Dentro la mia presenza spaziotemporale di vivente unico, ciò che definisco «legittimità cosmica» si rivela l’accoglimento di ogni forma possibile di consonanza immediata (ossia di armonia non mediata astrattamente da strutture culturali, linguistiche, metafisiche) con gli elementi dell’esistente con cui entro in relazione nella contingenza; consonanza che mi fa esperire, distaccandomi consapevolmente da un fine definito ed egoistico, l’assolutezza del momento che vado cogliendo e accordando nella matericità locale di un divenire.

Qualche sera fa, ho avuto un incontro ravvicinato con una giovane volpe che bazzicava già da tempo intorno casa. Il piccolo animale non sembrava affatto allarmato dalla mia presenza, né granché interessato ai gatti di casa che stazionavano nei pressi, tant’è che ho potuto arrivargli a meno di due metri senza grossi problemi. Presumo che sia una femmina, visto e considerato che finora non l’ho mai beccata a marcare il territorio con l’urina.
Sotto le stelle della mia porzione di Cilento, l’apparizione di questa volpacchiotta intraprendente è stata un’improvvisa e benevola riduzione di quell’alterità (apparentemente irriducibile) che separa l’umano civilizzato dal bacino comune a tutti i viventi.
Amare l’alterità è assentarsi da se stessi, dal proprio perimetro di pensiero, per riscoprire la verità della propria vita attraverso la presenza di ciò che ci parla senza alcun bisogno di parole. Attraverso l’irriducibile unicità di un Altro che non padroneggia i miei codici e i miei ritornelli, traduco la vita in barlumi di segni che non hanno più alcun bisogno di una struttura convenzionale per parlare a me stesso. L’approssimazione del senso si riappropria qui di un qualcosa che si rivela comune, amicale, coesistente, benché rimanendo del tutto intrasmissibile per via diretta. È necessario allora che la parola divenga inessenziale per far sì che il senso messo in gioco dal muto affioramento dell’Altro possa ricondurmi alla com-unicità possibile di tutti i viventi.
In ciò che amo e da cui mi faccio amare, so per certo che non potrò mai estraniarmi dal pensiero e dal dire che lo sostanzia, tuttavia, lasciandomi prendere dalle carezze del divenire, riuscirò pur sempre a seguire ogni aspirazione del vivente aprendomi a un mondo di visioni toccanti e di approssimazioni affettuose dentro il mondo stesso delle mie parole.

Laureana Cilento, 18-19 ottobre 2025 (continua – 20). L’immagine è il fotogramma di un mio video fatto la sera del 12 ottobre alla volpe di cui si parla nel post.