Fuori da ogni parentesi, la realtà è uno scrivere incessantemente sull’acqua. I libri, tutti i libri, sono scritti sulla battigia dell’imponderabile. Un testo rimane tuttora possibile soltanto per l’ottusità con cui sfidiamo senza requie la sua invariabile defezione.
Sul bordo di ogni possibile, io posso desiderare una continuità tra gli elementi del cosmo (non solo nel mio pensiero così labile e macchinoso) al fine di costruire del reale intorno alla mia presenza ottusamente materica.
Il divenire particolare del desiderio – il mio desiderare insieme all’altro, insieme al respiro delle cose – è l’intelaiatura stessa di ciò che vado assumendo come reale.
Il desiderio di una continuità non è però riparazione a una mancanza originaria, a una divaricazione tra soggetto e oggetto, bensì un processo, una sperimentazione, una poesia errabonda tra gli elementi, tra le similarità. Esso riconosce il lato toccante delle cose, ricolloca il tatto, intesse delle contiguità. Ciò che lo frena o lo impedisce diventa la fonte primaria della sofferenza, dei tumulti dell’anima, ma non per questo si lascia fuorviare più di tanto dalle avversità, essendo chiaro che nessuna soddisfazione ha una possibilità reale al di fuori delle ambizioni che un corpo vivo può appagare per sé.
A mio avviso, se si prende in esame l’etimologia della parola «desiderio», che proviene dal latino de- sidus, de- sidera, e che indica originariamente una «mancanza di stelle, di riferimenti tra le stelle» e quindi una «distanza dolorosa dal cielo», dovremmo deciderci una buona volta a considerare l’ipotesi di un nuovo lemma per dire gli slanci, le emozioni, le affezioni che dirigiamo verso l’Altro.
La mia disposizione a un’adiacenza tra gli elementi, e all’esautoramento di tutte le dissociazioni storiche tra i mortali, mi suggerisce il neologismo residerio, il quale indicherebbe sostanzialmente una ripetizione e una intensificazione della propria unicità dentro il divenire di tutte le cose. Vale a dire: un ritrovarsi incessante tra i fattori del cosmo; un ricondursi senza posa a un’immanenza che sa di casa; un muoversi e un commuoversi insieme all’Altro tra le stelle danzanti del reale.
Mentre il desiderio ci obbliga al risultato e a un lavorio funzionale del corpo, il residerio accarezza il mondo e fa attenzione a non corromperne la fertilità. È quindi un continuo restituirsi all’immanenza dell’esistente, dove «immanente» non è cosa che esista a priori, bensì quel «tutto» che si va costruendo con me (anche per il mio tramite) grazie all’infittirsi delle relazioni che lascio emergere dal mondo.
Il residerio è il segno + che non dipende dal capriccio di una supposizione. Si fa nel mentre. È la dimora delle aggiunte suadenti, l’emergenza dei pieni vitali che blocca lo scambio simbolico ed economico tra gli umani perché ci si rivela improvvisamente, ma nient’affatto casualmente, che i limiti supposti sono semplicemente una paura della materia. Le rotture sono soltanto nell’immaginario. Non si avverte più il bisogno di colmare, di riparare. La realtà – ciò che ancora ci ostiniamo a considerare realtà – è il momento della relazione, il corpo aperto alle domande, l’evento ulteriore e residerato che prepara la fioritura fiammeggiante dell’abisso in cui trapassare a ogni fiducia, a ogni leggerezza dell’entusiasmo.
Laureana Cilento, 21-22 ottobre 2025 (continua – 21). Fotografia: Magdalena Russocka.

beh, hai inventato un neologismo, ciao
Be’, sì. D’altronde, concetti nuovi, o che si vogliono tali, hanno bisogno di parole nuove. E’ sempre stato così. Ovviamente, le parole sono la superficie, lo smalto rilucente, di ciò che emerge o affonda ogni volta. Abbraccio a te.