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Elena Karneeva, germinazioni, L'avvenenza del divenire, Scrittura di continuità, scrivere sull'acqua
Che cosa potrei mai dire dei grandi dolori della mia vita se non il fatto che son stati quelli che hanno rivelato in me ciò che poteva essere cambiato, testimoniando pertanto l’esistenza di qualcosa che si opponeva con forza e tenerezza alla fatalità socialmente determinata? Essendo il dolore una pietra di paragone avente in sé il peso della morte, ci permette, nel caso in cui sappiamo soppesarlo e lasciarlo ai novelli Sisifo del nichilismo rincretinente e compiaciuto, di non morire pateticamente per quel che siamo o non siamo.
L’Essere è una muffa della materia che s’incolla a un’idea abitudinaria di presenza o di senso. Man mano che andiamo assicurandoci una presunta stabilità, finiamo solo per conformarci a un tipo di umanità della quale, evidentemente, manchiamo la più gioiosa incarnazione.
Di contro, la trasformazione appesantisce le dinamiche ontologiche e rigetta la marcescenza del pensiero.
(Il mio cuore non resta a guardare, dunque non me ne faccio nulla degli spazi in cui mi limito a coagulare i sentimenti. Il sangue è più pesante della notte e un corpo intelligente non può accontentarsi di portare avanti delle reticenze che inibiscono la bella brutalità dell’ignoto. Allontanarsi quindi dalle certezze, senza però mai abbandonare del tutto le verità che ci hanno lacerato. Il sangue che cola dalle nostre ferite è pur sempre un’infermità innocente del divenire.)
Quando mi sento compiutamente me stesso, quando cioè non avverto alcun impedimento sociale o diaframma di pensiero tra me e l’esistente, respiro l’assolutezza dell’attimo e incorporo l’indecidibilità della particolare costellazione materiale che mi abbraccia, pur sapendo che dovrò ricreare incessantemente la presenza del senso e il senso della mia presenza.
Vi sarà ancora uno spazio, dopo la mia morte, per ciò che io non ho interdetto pur dicendolo.
La morte ha un nome impronunciabile e si traveste da speranza deterritorializzata.
Come non dire l’inesauribile disfatta dei nomi mentre ci ostiniamo a recintare un senso, una dimora, un Io?
Scrivere è un modo per popolare la speranza. In ciò, si rivela sostanzialmente una mancanza di buon gusto nei confronti dell’imponderabile. Eppure, i suoi tramonti pieni di echi continuano ad allettarci.
La scrittura ci denuda anziché vestirci e ci abita con protervia non garantendoci, in alcun modo, un tetto stabile. Finiamo così per muoverci attraverso le stanze dei segni in direzione di una invivibilità tendenziale del già detto.
Eterna ricerca di una commessura, i nostri accoramenti per le parole. Impegno per un dopo del verbo che sappia essere avvento di una germinazione non ritrattabile.
Laureana Cilento, 1-2 novembre, 2025 (continua – 24). Fotografia: Elena Karneeva.
