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alchimia, antimorte, Edmond Jabès, esperienza poetica, il reale è relativo, infinito questionamento, la morte buona, Nicolas Flamel
Se mi arrischio ancora a parlare di «realtà» e «reale», è perché continuo a credere in quei processi della conoscenza che ci permettono di creare corrispondenze, concatenamenti, descrivendo o provando a contornare rispettosamente l’incessante trasformazione della materia.
Il reale è quell’esperienza del mondo, emergente dalle nostre azioni e dal nostro pensiero, che diventa una forma comune di verità (sempre locale e sempre in divenire) non appena la condividiamo con gli altri vivificando in tal modo la nostra presenza e le nostre capacità di presa sulle cose; esperienza che è anche costruzione di uno stile delle relazioni.
La morte vince sulla carne, non sulle parole. Ci sono infatti delle voci che non si spengono mai del tutto. Ecco perché ci ostiniamo ancora a parlare, a scrivere. Perseguiamo una consistenza, cerchiamo di accordarci alla notte popolata di domande e continuiamo imperterriti a innamorarci di un fugace bagliore. Non vogliamo credere che ci sia eternità soltanto nell’oblio.
Il messaggero di Dio era riuscito a sconfiggere i limiti della materia e a superare la calca, i popoli in ginocchio, la massa inerte dei pensieri morti.
Andando a ritroso fino in fondo alla Creazione, Nicolas Flamel aveva incrinato il carapace della realtà e il miracolo era giunto a concretizzarsi (possente, preciso) dopo anni e anni di tentativi, di adescamenti. La fatica dell’opera non poteva di certo sfiduciare la grazia!
Flamel conservò per sempre un ricordo vivido e indimenticabile del momento in cui la cosa era avvenuta, ma non ebbe mai modo di capire qual era stata l’esatta e giusta combinazione tra il fuoco dell’athanor, gli elementi utilizzati e le emanazioni che lo avevano raggiunto quella notte; il che significava potersi proiettare verso il futuro, nei secoli dei secoli, ma, ahimè, senza sua moglie Perenelle, senza i suoi affetti più cari, che sarebbero stati ben presto abbrancati dalla morte.
Ora, per forza di cose, essendosi liberato da ogni cosa peritura, doveva ricollocarsi nell’universo a partire da quella frattura irrimediabile e tenendo presente che l’ovvio era ormai franato. Con suo grande stupore, i dubbi persistevano ed erano forse l’aspetto più vivo del risveglio.
«In cosa sono stato manchevole – s’interrogava Flamel – e quale impudicizia mi ha rallentato, mi ha isolato, mentre cercavo l’oro di una redenzione definitiva? Che cosa ho perso conquistando la meta? E cosa mi verrà sottratto insieme alla morte? Quali macchie di sporcizia sentimentale mi porterò dietro per sempre? Come potrò evitare che il rito di giorni senza più fine divenga un cerimoniale vuoto? La vittoria sulla morte sarà forse lo svuotamento di ogni festa possibile del corpo? Voglio dire: dal momento del risveglio, la mia carne sarà definitivamente sacra o eternamente profana?».
Una morte buona è sempre una conquista, mai un epilogo scontato. La morte non si sconta. Certo, possiamo considerarla talvolta un esilio dentro un particolare addensamento degli elementi, ma non è mai da ritenere una condanna. Soltanto gli spiriti preteschi e i nichilisti arrivano a condannare la morte, la vita. La chance indecidibile della nascita ci ha destinati a una ricerca senza fine, ma che rimane pur sempre, comunque vada, un segmento ineludibile e stupefacente del divenire.
Preferendo un vestito di scintille ai rinnegamenti ben pasciuti, bisogna ammettere che la leggibilità di una vita rimane prevalentemente postuma.
I miei animali sepolti sotto il grande pino marittimo sono cicatrici feconde, innocenti, sia per la terra che li ha accolti, sia per me che resto ad accudire, ogni anno, la primavera che vi verdeggia intorno.
Cerchiamo di non barare. Lasciamo perdere i capricci del desiderio. Il senso che diamo alle cose è un sovrappiù non precisabile, eppure, senza quest’innesto, senza la capacità di creare dell’ulteriore, la nostra presenza finirebbe per risultare un mero inciampo della materia.
Edmond Jabès ha scritto: «La prima domanda è posta dall’ultima». Io direi, più precisamente: il vivente che s’interroga sul senso delle cose torna a riemergere dal Nulla solo grazie alla prossima domanda; domanda, quest’ultima, che non potrà mai rinnegare l’infinito questionamento.
Laureana Cilento, 8-9 novembre 2025 (continua – 27). Fotografia presa dal web.

Alla fine ogni vita ha un continuo Perché e spesso ci si gira dall’altra parte
In effetti, possiamo trovare o escogitare un perché a qualsiasi esistenza, concordando più o meno con l’Altro. Detto questo, il problema vero, secondo me, è il “metodo” con cui scegliamo verso chi indirizzare le nostre attenzioni. Purtroppo (o per fortuna) non possiamo star dietro a tutto e tutti, e quindi dobbiamo fare una cernita, che può essere di volta in volta politica, esistenziale, “morale”, ecc. ecc. L’universalismo ci manda spesso fuori strada o ci rende inerti, impotenti. Per essere efficaci (e realmente affettuosi) dobbiamo quindi focalizzarci su un territorio molto meno vasto e senz’altro più nostro. Ecco il perché, per esempio, del mio concetto di com-unicità, da vedere contrapposto e tendenzialmente indifferente a ogni condizionamento sociale.