Carmine Mangone, “Qui la vita, qui gioisci”, Ab imis, 2024

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Carmine Mangone, Qui la vita, qui gioisci, postfazione di Anna Coluccino, 2024, Ab imis, 112 pagine, 10 euro.

[ Copertina in cartoncino patinato con plastificazione opaca, interni in carta avorio uso mano da 90 grammi e rilegatura a filo refe. Libro fuori dal circuito commerciale. ]

Le fotografie in prima e quarta di copertina sono di Nella Tarantino.

Per richiedere copie del libro, usate il form della pagina Bookshop, scrivete alla mail mangone.carmine@gmail.com, oppure contattatemi su Telegram. P.S.: aggiungete sempre un contributo minimo di due euro per le spese postali.

* * *

[ Estratti dall’opera: ]

Imparare la gioia sottraendosi alla tentazione d’impartirla. La gioia si accoglie, si riconosce, si partecipa. Non la si predica, né la si costringe impunemente dentro un metodo vincolante. Ha a che fare col galleggiamento in pieno sole, non con gli abissi. Ci serve ad accarezzare le asperità della vita, non a smussarle. È il frutto di un’alleanza, di un’amicizia, non di una subordinazione. (…)

Rimbaud scriveva che l’amore va reinventato. Oggi però abbiamo bisogno di un sovrappiù d’impegno, perché va ripensato anche il reinventare, lo stesso desiderio di reinventare. D’altronde, ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare amore, preso da solo, isolato cioè dal divenire di un’intelligenza comune, non basta e non può più essere sufficiente, soprattutto oggi, soprattutto nell’epoca della liberalizzazione dei costumi sessuali.
Occorre ripensare la potenza dell’eros. Occorre inventare un nuovo genere per l’affetto, una nuova avventura affettuosa contro la stanchezza e la decadenza pornografica dell’amore. Non si tratta però di ricostruire un patetico decoro dei sentimenti o di ricostituire una mitica unità androginica, bensì di riappropriarsi di quell’indecenza che ci farebbe tornare ad essere toccanti, affettuosi, al di qua della trita dialettica legge/trasgressione: un’indecenza da assumere (e da assolvere affettuosamente) facendone l’annientamento tendenziale di tutte le separazioni sociali che ormai ci vogliono subordinati pornograficamente alle nostre paure, al nostro narcisismo, al nostro potere d’acquisto socialmente determinato. (…)

I corpi emergono continuamente dal fondale del possibile come grumi di materia affettiva. Maschio, femmina: sono idee storiche della densità emozionale umana. Il divenire insidia ogni convenzione, ogni regolamentazione degli affetti. L’unicità delle relazioni gioca contro le abitudini di pensiero. Si può fare l’amore con qualsiasi elemento del cosmo. Ogni corpo ha una sua capacità di poesia. Bisogna tentare, farsi tentare. Le paure si fanno da parte a ogni tocco affettuoso. Non tutte le erezioni sono autoritarie. Non tutti i pensieri dell’uomo si rivelano erettili. Ciò che si chiama erotismo, dunque, è un insieme polimorfo di dinamiche amorose. Proprio per questo, occorre liberarsi degli ispessimenti culturali e morali venutisi a stratificare intorno al pensiero erotico. Anzi, per quanto possibile, bisogna liberarsi del pensiero erotico storicizzato in modo da far spazio a una vera e propria sapienza erotica, ossia a un’intelligenza affettuosa, toccante, capace di creare unioni di godimento tra i viventi, vale a dire comunità di scopo e di cuore in cui la finalità (il talento condiviso) sia un godimento che non istituisca dipendenze, subordinazioni, autorità. (…)

Quando pianti un albero o raccogli un cucciolo per strada, il suicidio si allontana, la morte si scansa ancora per un po’, e tu allora puoi darti un modo per ammirare l’albero che cresce, il gatto che ti occupa il divano, le tue rughe sempre più numerose che sorridono al mondo.
Si vive per costruire dei momenti in cui la tua stessa morte possa in qualche modo morire senza trascinarti con sé; costruire una morte che impari ad attendere e che non ossessioni le tue attese.
Una tale costruzione non è la ricerca di un disamore, di un distacco, né il conseguimento di una fantomatica “pace dei sensi”, bensì la consapevolezza di ciò che si compie andando incontro, ancora e sempre, a ogni età, in ogni gioia e con ogni paura, a tutti i possibili della propria potenza di vivente irripetibile.
Io pianto alberi e metto in connessione col mondo una parte della mia potenza. La trasmetto. La restituisco. Assaporo l’intensità che mi giunge dalle risposte che mi dà il mondo e ne faccio un rilancio di vita, anche quando so bene che non potrò mai comprenderle del tutto, anche quando riconosco che le sto già tradendo con una mia nuova interrogazione.
La potenza viene dalla storia del mio sangue e dal fatto che io giungo a perdonarlo (a perdonare il Padre, la Madre) senza sentire la necessità di un’espiazione. Questa potenza viene a bussare al mio corpo e mi trova pronto a spogliarmi di ogni risentimento, di ogni morte inutile.
Non è mai stato facile, intendiamoci, ma la pratica ostinata di una poesia ancora possibile, insieme all’Altro che riconoscevo e che mi riconosceva, anche se al buio, anche se con l’acqua alla gola, mi ha tolto dall’imbarazzo di asservirmi a un’idea di salvezza pateticamente singolare.
La poesia: quest’affetto per il volto effimero della soddisfazione che io dico così malamente e che mi tira per il braccio invitandomi a ridere di ogni mio tentativo di stabilità; questa “cosa” che mette in comune stelle e fango, amore e insurrezione, e che niente potrà mai dire o fare contro la mia voglia di riconoscere una tenerezza persino alle pietre su cui inciampo. (…)

Mi rendo conto che è quasi un anacronismo scrivere di alberi, gioia, affetto. Le parole mancano o raffreddano i corpi. L’umano fallisce sempre più riccamente. La poesia stessa viene intesa dai più come una forma patetica di accumulazione incoerente del senso.
Eppure, i fiori della borragine, i polloni indisponenti dell’ulivo, mi vanno ricordando l’adiacenza dell’essenziale che andrebbe ancora detto e di tutti quei corpi che riescono pur sempre a fiorire nonostante la rabbia di una terra che calpestiamo senza rispetto. (…)

Senza la tenerezza, non è la mia insurrezione, non è il mio amore. (…)

Il mondo non va abbandonato o rianimato. Il mondo va abitato con affetto. I semi hanno sempre e ancora una chance. Nascere è giocare con questa chance, giocare col nulla da cui veniamo. Un dispetto della materia nei confronti dell’eternità. L’energia si addensa lungo una sequenza di stati stupefacente, in parte imprevedibile, a tratti incauta, e la luce d’un corpo emerge improvvisamente dal fondale dell’universo. Ecco. Un gatto randagio compare alla porta. Una sconosciuta ti sorride per strada. La conoscenza imbandisce le sue costellazioni per fare amicizia con la notte. Nulla è vano. Nulla è necessario. Accogliamo o costruiamo concatenamenti per sentirci parte di quel movimento che si prende cura del cosmo facendoci morire insieme alle stelle. Ci teniamo sul bordo di una lacrima. Ci consegniamo a forme di radicamento che non tradiscano la terra. Di giorno, lavoriamo alla morte. Di notte, concediamo una nuova vita alla fiducia e contiamo di non subordinare il risveglio a una qualche stupida vanagloria. L’ignoto ci prende per mano, non alla gola. L’affetto è una nebulosa di stelle bambine. L’ultima parola non esiste. (…)

Non ci si accampa in corpi sfavorevoli.
Non si sosta in un corpo troppo isolato.
Se il desiderio ti accerchia, elabora una tenerezza che rompa l’assedio.
Vi sono affetti che non vanno addomesticati.
Vi sono amori da congedare prima che divengano delle truppe d’occupazione.
Ci si unisce all’Altro non solo lungo la strada di casa.
I territori della vita e della morte vanno affrontati con una buona dose di responsabilità e gentilezza.
Nel mondo dell’affetto, la subordinazione non è mai una virtù.
Coltivare la compiutezza, non la totalità.
Privilegiare gli eventi, non le cose.

* * *

[ Dalla postfazione di Anna Coluccino: ]

(…) affettuosità e tenerezza, come paradigmi dell’anarchia, sono tra i motivi principali di Qui la vita, qui gioisci, e, seppur declinati dalla voce di un uomo bianco cisgender, risultano del tutto privi di quell’adesione forzosa a un modo dell’essere che resta l’unico a venir approvato dal Dominio. Anzi. Mangone si prova nella tenera ricerca dell’incontro con l’Altro tramite il coraggio di un’esplorazione risoluta del sé, il che implica la netta recisione di quei dettami sociali tramutati in arti fantasma, incombenti eppure incorporei, che impediscono una vera relazione tra le persone e avallano solo l’unione di corpi replicanti, recitanti, animati da menti memetiche. Carmine rielabora la propria storia e rievoca i suoi amori e, frattanto, trama e ordisce il senso della sua poetica, non solo e non tanto in quanto concezione, ma soprattutto nei termini di un’apposizione, di un accrescimento, di una manifestazione pratica dei modi e dei tempi del vivere capaci di scaturire gioia, irradiare luce, godere dell’ombra. In questo senso è un testo definitivo, perché riesce a tracciare i confini di un senso del divenire privo di recinti e più simile a una soglia durevolmente affacciata sull’Altro. (…)

Nonostante la fatica che ci costa il divenire autenticamente, dovendoci muovere all’interno di una realtà sempre più simulata, è liberatorio compartecipare al desiderio di Carmine nell’osare la gioia senza esaltare il combattimento, concependo quindi il traguardo di consonare col mondo non come conquista o bottino di guerra, bensì come un allentare la presa sull’identità, laddove quest’ultima sia stratificazione di norme, stereotipi, attese e pretese sociali che si fondano (anche) su quella sopravvalutazione sistemica dell’umano che chiamiamo antropocentrismo: visione mortifera che impedisce, nel qui e ora, un pieno, compiuto contatto tra tutto quel che co-esiste. (…)

L’educazione al distacco e alla quieta accettazione della fatica di vivere di cui racconta Carmine non è rara nella società contemporanea, quasi fosse necessario addestrare i piccoli umani alla sopportazione delle pene, alla mancanza di gentilezza nel mondo, alla vita che non regala niente, alla diffidenza nei confronti di chiunque. I nostri modelli educativi sono intrisi della malsana idea di dover preparare alla sofferenza futura infliggendo sofferenza nel presente. Manchiamo spesso di notare che, se è pur vero che un certo grado di dolore è ineludibile, non ha alcun senso aumentarne la frequenza, come se fosse un veleno con cui mitridatizzarsi. Chiunque abbia perso almeno due persone amate, sa che non si soffre meno per la mancanza della seconda avendo potuto “allenarsi” con la morte della prima. (…)

Il mio corpo è un campo di battaglia, nonché terreno di conquista e di scontro politico, per cui, pur restando possibili la gioia, l’erotismo, la poesia, resta inaggirabile la necessità di confliggere. L’alternativa è l’acquiescenza, la sottomissione. In questo campo, non posso scegliere di disertare. Non mi si chiede di andare in guerra per l’onore: il mio corpo è oggetto dell’assalto e la resistenza non è un’opzione. Innanzitutto, devo dare battaglia alle voci che mi sono state piantate dentro, al lavorio dello Stato, del Capitale e dell’Immaginale teso a possedere non solo l’autonomia della mia carne, ma pure la sua raffigurazione, la sua unicità, il suo diritto all’esultanza. (…)

Come se ci sorprendessimo ancora e sempre

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a MCLP. In memoriam.

[ Brano confluito in: Qui la vita, qui gioisci, Ab imis, 2024 ]

Ero stato distratto dalla mia vita. Mi ero perso nel tentativo egoista, e che ora ritengo oltremodo indelicato, di salvarmi dal desiderio che avevo provato per te. E così, intorpidito dalla distanza e dal divorzio delle nostre voci, non mi sono accorto della tua morte.
La malattia si era impossessata da tempo del tuo destino, della tua bellezza. L’epilogo era ormai scontato. Ma non c’è mai un buon motivo per mancare di rispetto alla morte di chi ci ha donato la sua fiducia e le sue risate più audaci.
Lo so, lo so perfettamente che detto così è fin troppo facile, ma bisogna cercare di essere sempre in anticipo di almeno un sorriso rispetto all’ineluttabile.
– Pomeriggio ventoso, ozioso. Me ne sto fuori a fumare un mezzo toscano mentre le chiome degli ulivi sembrano salutare le nuvole nere che corrono verso Sud. Ti penso. In questi giorni, da quando ho saputo che la Nera Signora ti ha portata via con sé, non faccio che pensarti. Ed è inutile ripetersi che non meritavi quella sorte. Il destino non si merita, e neanche si subisce. Accade e basta. Non possiamo far altro che lasciare la porta socchiusa. Facciamo delle scelte, certo, ed è bello farle: ci rende unici, ci fa godere del nostro andamento tra le stelle indifferenti. Ma ciò per cui ci batte il cuore non evita che la nostra materia si franga contro un nuovo possibile anche nostro malgrado.

I miei pensieri cercano di tenerti dentro una passione ancora calda. Non voglio che il desiderio diventi un contabile freddo e razionale, un becchino gentile. Tenerti dentro il pensiero significa voler bene anche al male che ci ha riservato la nostra particolare esistenza. D’altronde, come potrei tradire la poesia che ha erotizzato anche le nostre mancanze consegnandomi da ultimo a un’amicizia a prova di morte?
Il vento dell’irrimediabile non arriva a scompigliare i ricordi. S’insinua tra le immagini che ho di te, mette a nudo la natura delle cose, ma non sconcerta il mio affetto. Ti penso, ed è come se il mio pensiero non conoscesse più alcun rancore verso la morte. Cerco di vederti negli alberi, nelle nuvole, nei gatti di casa, nella lontananza delle cose che non abbiamo eluso. La tenerezza allora si prende tutto, elimina gli spigoli della vita, e fa sì che la vastità indecorosa e stupenda dell’universo non gravi più di tanto sulle incertezze del giorno.
Avevi un’intelligenza che ho sempre ritenuto costitutivamente erotica e alla quale conferivi una continuità erotizzando ogni manifestazione della tua presenza. Contro l’alea del desiderio e l’intermittenza del godimento, mettevi in scena una seduzione ironica e illimitata, sovente fraintesa, con la piena consapevolezza della fragilità che dovevi esorcizzare a ogni denudamento della realtà.

Il tuo erotismo era una continua tensione tra natura e progetto, e in questa ambivalenza, che rappresentava il fuoco e il limite stesso della tua poeticità, e dove si tallonavano criticamente maschile e femminile, appariva chiaro che il femminile attenesse la morbidezza, la resistenza, mentre il maschile (come da copione) si riducesse alla durezza e alla fragilità.
Ciò nondimeno, riuscivi a ingioiellarti con l’oscenità del tuo corpo esplicito senza mai neanche sfiorare la volgarità di coloro che venivano meno alla tua fiducia. Dietro l’ostentazione quasi didascalica del tuo erotismo, mediata in gran parte dalla parzialità dei maschi che cercavano d’incorniciarti, prevaleva comunque la tua malizia. Se la visione del maschio si porta dietro pur sempre uno stupro simbolico, metaforizzato più o meno malamente dal suo desiderio di possesso, tu riuscivi a neutralizzare il predominio del cazzo facendo diventare “filosofici” tutti i dettagli erotici della tua presenza, senza per questo renderli neutri o inoperosi.
Tu creavi sesso. Tu imbrattavi la poesia con le tue voglie. E l’intelligenza del tuo corpo si permetteva un’impudicizia gioiosa, persefonica, sottraendosi a ogni annessione, facendosi abitare solo da un’oscenità ironica, tenera, inasservibile. Ed era proprio grazie alla tua ironia, ai tuoi propositi di accudimento verso il divenire erotico del mondo, che sfuggivi ogni volta alla pornografia degli spiriti asserviti e al cattivo gusto del loro risibile inferno domestico.

In un modo che sarà apparso oscuro ai più, hai difeso l’unicità dell’affetto carnale contro la liberalizzazione pornografica dell’amore. In te, il governo dell’energia sessuale, che è sempre stato storicamente, stolidamente maschile, si andava trasformando in po(e)tenza di un corpo che si dice con ogni sesso possibile. Contro la potenza malferma del maschile (e delle dinamiche di potere erettili), tu facevi passare infatti l’idea di un’assoluta libertà sessuale della poesia. In te, la realtà si trasformava in poesia, divenendo anche più reale di molti dei corpi che potremmo mai abbracciare in un’intera vita. Movimento ingenuo, e che nondimeno ci mantiene al di qua di ogni rimozione, trasmutando il nostro desiderio in una sorta di iperrealismo della materia vivente, in un Odradek carnale e proteiforme, totalmente inutile, totalmente inscambiabile, ma, proprio per questo, capace di sottrarsi all’economia dell’amore.
– Mentre continuo a godermi il sigaro restando assorto nei miei pensieri, compare improvvisamente un’upupa. Si posa sotto il limone che ho davanti casa e comincia a zampettare, con la cresta eretta, a pochi metri da me. Essendo uccelli assai schivi, è raro ammirarne uno a distanza così ravvicinata. Mi viene da sorridere e non riesco a trattenere un collegamento tra l’apparizione dell’upupa e le riflessioni che andavo facendo su di te. Per un attimo, credo che mi si stia trasmettendo la vibrazione di una presenza e che tutte le mie visioni si addensino in un continuo differimento della tua ultima parola: eccoci qui, dunque, ancora una volta, a tenerci per voce, a realizzare l’origine delle cose, dei corpi, in una nostra eterna prima volta, come se ci sorprendessimo ancora e sempre a scoprire un’intesa, un’ala comune del desiderio.


Laureana, estate del 2020. Fotografie: Claudia Sanna.

Viviana Leveghi :: poesie e aforismi

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[ testi e fotografia: VIVIANA LEVEGHI ]

*

Ho smesso di coagularmi
attorno al tuo desiderio,
così, se mi diluisco,
non saprai più cosa nel mondo
sia io oppure no
e la condanna che ti spetta
è vivere nel dubbio
dello specchio.

*

Non siamo i soli a fare esperienza: anche le cose imparano da noi.

*

Che impegno,
la bonifica dei pomeriggi
i detriti dei baci
l’insediamento primitivo del tuo esserci
verità blu, solo latrati

di una notte sola

principio del tentativo
espanso nell’addirittura
contratto nel di già
casualità suggerita debolmente,
succhiata dalle dita
poderosa scienza del collasso
orientamenti del rischio

*

Odio le scale mobili
quando si rompono
perché costringono ad arrampicate
e non c’è passo che possa reggersi
in quella fretta che tutti sembrano avere

e mi chiedo
se ci cadessimo tutti addosso,
cosa resterebbe della nostra furia.

*

Un litorale alla volta
così soltanto posso conoscerti
costeggiandoti lungo la riva permessa
gli oceani mi informano
passeggiando sul crinale

è la fine dei saldi
e non ho comprato niente.

*

Il passato non esiste: è solo un presente che ha fatto esperienza.

*

Un cane estroverso
si arrampica su un vecchio
che lo accoglie da amico.

Sembra che a entrambi
manchi il tempo

e il vecchio sorride al cane
coccolandolo senza denti

la padrona non è in imbarazzo,
ma io lo sarei, sì
gelosa di un amore immeritato,
ma il vecchio ora ride di gusto
e già non può farne a meno.

*

La consapevolezza è la nostra medaglia quando pensiamo di non poter più partecipare.

*

Mago di niente,
primavera per poco.
Saliva sulla mela
che è sul treno sbeccato,
mentre la gente urla perché
la macchinetta ha rubato cinque euro a qualcuno
che non è per i cinque euro,
è per il principio

dice quest’uomo prendendo a calci un po’ il distributore
e un po’ la sua vita.

E un amico è turbato dall’amico eccessivo.
E io sono turbata dall’amico turbato.

Ogni cosa è turbata
tranne il tramezzino incastrato.

*

Se devo scegliere un Dio, scelgo il dubbio.