René Crevel, Parigi 1900-1935. Cofondatore, con Georges Limbour, Max Morise e Roger Vitrac, della rivista Aventure, Crevel frequenta i dadaisti, poi inizia il futuro gruppo surrealista all’esperienza medianica dei sonni. I racconti che elabora (Mon corps et moi, 1925; Babylone, 1927; Etes-vous fous?, 1929), più o meno autobiografici, si presentano come lunghe meditazioni sul desiderio e sulla rivendicazione della sua libera espressione. L’adesione al comunismo e l’impossibile conciliazione di quest’impegno con la propria fedeltà al surrealismo sono senza dubbio tra le cause del suo suicidio, avvenuto nel 1935. René Crevel, tra i surrealisti della generazione tra le due guerre, è il solo ad aver affermato la propria omosessualità. I brani che seguono sono, il primo, la sua risposta alla famosa inchiesta sul suicidio condotta dal gruppo surrealista e pubblicata sul secondo numero della rivista La Révolution surrèaliste e, il secondo, un estratto da Le clavicin de Diderot, frammento in versi che ricorda il Péret di Je ne mange pas di ce pain-là.
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Si vive, si muore. Qual è il ruolo della volontà in tutto questo? Pare che ci si uccida come si sogna. Non è una questione morale che noi poniamo: IL SUICIDIO È UNA SOLUZIONE?
[Risposta di René Crevel:] Il mosaico dei simulacri non regge. Intendo dire che l’insieme delle combinazioni sociali non può vincere l’angoscia di cui è impastata la nostra stessa carne. Nessuno sforzo si opporrà mai vittoriosamente a questa spinta profonda, a questo slancio misterioso, che non è, Sig. Bergson, lo slancio vitale, bensì il suo meraviglioso contrario, lo slancio mortale.
Da un suicidio al quale mi fu dato di assistere, e il cui autore-attore era l’essere, allora, più caro e più soccorrevole al mio cuore, da quel suicidio, che – che per la mia formazione o deformazione – fece più di ogni posteriore prova d’amore o d’odio, dalla fine della mia infanzia ho sentito che l’uomo che facilita la sua morte è lo strumento docile e ragionevole di una forza maiuscola (chiamatela Dio o Natura) che, avendoci messi in seno alle mediocrità terrestri, trascina nella sua orbita, più lontano di questo globo di attesa, soltanto i coraggiosi.
Ci si suicida, si dice, per amore, per paura, per sifilide. Non è vero. Tutti amano o credono di amare, tutti hanno paura, tutti sono più o meno sifilitici. Il suicidio è un mezzo di selezione. Si suicidano quelli che non hanno la quasi universale viltà di lottare contro una certa sensazione d’animo così intensa che bisogna prenderla, fino a nuovo ordine, per una sensazione di verità. Solo questa sensazione permette di accettare la più verosimilmente giusta e definitiva delle soluzioni, il suicidio.
Non è verosimilmente giusto né definitivo nessun amore, nessun odio. Ma la stima nella quale, mio malgrado e a dispetto di una dispotica educazione morale e religiosa, sono impegnato a tenere chiunque non abbia avuto paura, e non abbia limitato il suo slancio, lo slancio mortale, mi porta ogni giorno a invidiare ancora di più quelli la cui angoscia fu così forte che non poterono continuare ad accettare i divertimenti episodici. I successi umani sono moneta fasulla, grasso per giostre. Se la felicità affettiva permette di pazientare, è negativamente, alla maniera di un soporifero. La vita che accetto è il più terribile argomento contro me stesso. La morte che più volte mi ha tentato superava in bellezza la paura della morte di essenza gergale e che io potrei anche chiamare timida abitudine.
Ho voluto aprire la porta e non ho osato. Ho avuto torto, lo sento, lo credo, voglio sentirlo, crederlo; difatti, non trovando soluzioni nella vita, a dispetto del mio accanimento a cercare, avrei ancora la forza di tentare qualche prova se non intravedessi nel gesto ultimo, definitivo, la soluzione?
La Révolution Surréaliste, n. 2, 15 gennaio 1925, p. 13.
POST-SCRIPTUM
Tirandosi su le gonne della menzogna,
le grosse e flaccide repubbliche
designano come pozzi di verità
in fondo a foreste pubbliche
i loro buchi virginali,
poi dicono: tié, prendi il mio potere pubblico.
Parlano a coloro il cui sangue è polvere,
il cazzo un allacciabottoni filantropico
e i coglioni due poveri lampioni
raccolti nelle pattumiere del liberalismo
l’indomani del quattordici luglio.
Il cervello è color sperma
e Jean-Jacques Rousseau,
la cui bara ginevrina
doveva fare da culla alla Società delle Nazioni,
ad ogni masturbazione
già annunciava, per la felicità delle preziose con fronzoli e nastrini,
le belle
di cui era il cocco
“Dame, venite a veder colare un cervello.”
Ma si ha un bell’essere conservatore, il vaffanculo non vuole
lasciarsi mettere in bottiglia,
mentre un cervello,
se lo si porta solo la domenica, giorno di riposo,
per non consumarlo troppo in fretta,
durante la settimana viene sistemato sotto il globo gemello
di colui che, fra due candelabri,
per il più bell’ornamento dei camini virtuosi
ospita la simbolica corona di fiori d’arancio.
Ché la vecchia pulzella
è degna del Signor Intellettuale
dacché, se il pulzellaggio vale tanto oro quanto pesa
e vale tanto oro quanto pesa anche l’intellettualità,
sul ponte dei pesi d’oro
non possono che incontrarsi
la vecchia pulzella
e il Sig. Intellettuale.
Ed ecco come ogni grossa fiacca repubblica
prende per magnaccia uno pseudo-filosofo.
Lo dà come successore a Dio.
Ora, Dio disse ad Adamo
“Lavorerai col sudore della tua fronte,”
ed è l’abominevole storia del paradiso perduto
che si ripete,
quando sono offerte
scuole primarie, in guisa di eden provvisorio
mentre il Sig. Intellettuale riserva al suo piacere
i frutti dell’albero della scienza.
Egli vuole che s’impari, semplicemente,
a venerare lui e il suo capriccio
e la scatola delle malizie
che serve da scrigno alle sue delizie.
Uomo della strada, uomo dai pugni duri
fa’ a pezzi i vecchi ornamenti
tutte le porcellane delle raffinatezze
schiaccia lobo su lobo
poi getta nel letamaio i cervelli sotto vetro.
Strappa a tutte le marionette i loro nervi imputriditi,
fanne corde per violini delle loro
malinconie così distinte
e ricordati che se il Sig. Intellettuale
pensa con le sue bretelle,
il Signore della psicologia
col suo ombrello,
il grazioso poeta
con i suoi reggicalze
i loro compari
i Signori militari
con che pensano dunque
se non
con mitragliatrici e cannoni?
René Crevel, Le Clavecin de Diderot, J. J. Pauvert éditeur, 1966, pp. 57-59.
[ Traduzioni: Carmine Mangone ]