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[ Passi tratti da: Qui la vita, qui gioisci, Ab imis, 2024. La foto è di Katerina Plotnikova. ]

Primi di giugno. Dopo pranzo. Mi siedo fuori a fumare il mio solito sigaro e ad osservare il cielo, gli ulivi. Un merlo, intanto, mi tiene compagnia col suo canto cristallino creando una prossimità che non ha bisogno di parole. Il pensiero si sfrangia, si acquieta. La presenza di tutte le cose si afferma spensierata. Mi lascio allora catturare dall’azzurro del cielo e la mia mente vaga e si svaga senza divagare, senza cautelarsi. Vi è un perdimento del pensiero che sa essere di una chiarezza tenera, inclusiva, sporifera, e che mi apre a un’amicizia verso il respiro locale dell’esistente, all’agitazione microscopica dell’immane, al tepore senza nome che prende vita dall’incontro degli elementi.
La configurazione accidentale del mondo mi appare per quella che è: una peculiarità effimera dell’universo che accoglie e mette in discussione affettuosamente le sfocature del mio pensiero, la protervia mortale delle mie cellule; uno di quei momenti in cui viene a morire e a ricombinarsi serenamente l’interrogazione che segmenta il divenire da cui va emergendo la singolarità della materia vivente; una sorta di disarcionamento del pensiero e dei suoi tentativi di approssimazione; un’intesa senza tempo; un combaciare senza misura, senza subordinazioni.
Mi accorgo allora di sentirmi bene nell’Altro, nell’avvento dell’Altro. Da sola, la mia unicità resterebbe una speranza di meraviglia; con l’Altro, accompagnandolo nella mia stanza dei giochi, o introducendomi affettuosamente nella sua, le nostre rispettive unicità diventano una potenza comune dello stupore, uno stagliarsi del nostro comune avvenire (insieme, accorati, benché mortalmente autonomi) nell’accavallarsi indecidibile di tutti gli eventi, perché «il mondo non è un insieme di cose, è un insieme di eventi» [Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano, 2017, p. 87] e noi siamo le scintille che concatenano gli incendi senza rivendicare necessariamente una padronanza del fuoco.

Nel 1993, su una spiaggia del dipartimento francese delle Landes, il documentarista Anthony Martin riprende una scena decisamente singolare: un giovane daino, che forse vede il mare per la prima volta, corre e salta lungo la battigia in preda a un’evidente contentezza. Giocando da solo fra le onde, si concede a un’esultanza irrefrenabile, toccante, e non pare affatto intimorito dalla vastità marina che gli si spalanca davanti. Posto di fronte all’imponderabile, l’animale si lancia indomito verso la novità senza mai smarrire apparentemente la natura della propria contiguità con tutte le cose.
Se dovessi chiamare questo suo movimento in qualche modo, lo chiamerei com-unicità, lo chiamerei emergenza della poesia pratica, lo definirei convergenza affettuosa tra determinate singolarità della materia vivente. Certo, potrei anche non chiamarlo affatto, ma se io non riuscissi a nominarlo e a dirmelo, mi vieterei per sempre l’adesione alla sua gioia e smarrirei così anche l’andamento praticabile della mia lotta poetica e patetica contro l’incomunicabile che mi separa dall’Altro.
Beninteso, io non parlo facendo le sue veci, non surrogo la sua presenza attraverso il mio discorso. Utilizzo invece la mia unicità per manifestare un’adiacenza, una consonanza degli elementi mondani, dicendone l’amicizia possibile senza subordinarmi al già detto, al già pensato. Le parole diventano così un’appendice della nostra gioia, un alimento del divenire comune, restando una delle variabili affettuose di tutti quegli eventi (passati, presenti e futuri) che ci pongono dalla stessa parte del destino.
Il comportamento del giovane daino di fronte all’oceano è una forma elementare (oserei dire: una poesia primaria) della meccanica attraente del cosmo. L’animale non ha bisogno di parlare. Il linguaggio comune si costruisce a partire da un’intesa tra le energie, tra le unicità viventi, non automaticamente dalla condivisione di un codice segnico, fonico. La com-unicità è una rete di affetti interconnessi e convertibili energeticamente in modo fiducioso, poetico, ingovernabile, non un modello deterministico tra funzioni macchiniche.
Ma per quale motivo il giovane daino arriva a toccarmi in un modo così prepotentemente autentico? Che cosa agisce nel mio mondo – nel flusso di eventi che è il mio mondo – per far sì che l’animale mi parli in un linguaggio a me comprensibile pur non avendo in comune un codice comunicazionale specifico? Di quale autenticità stiamo parlando? Come viene a crearsi la fiducia che consente all’Altro (al mondo) di curarmi dal dolore, dalla paura, dalle separazioni sociali?
Al di là di una convergenza locale di energie, c’è un moto generale degli eventi che unisce il mare al daino e il daino a me, e questi eventi singolari hanno evidentemente la stessa frequenza, la stessa pulsazione.
Si tratta quindi di una consonanza, di una correlazione non riducibile a un abbaglio romantico o alla meccanica classica agente tra i corpi sociali dell’umano. È come se ci fossero degli stati d’onda della materia che danno consistenza a un principio di concordanza (e non di subordinazione o di contrapposizione) tra energie che s’interconnettono indipendentemente da una loro eventuale separazione organica, sociale o spaziale.
A partire da una tale concezione, l’idea umana e storica dell’amore appare come un’approssimazione, come una labile focalizzazione cognitiva di quella concordanza che giunge a innescarsi tra diversi addensamenti peculiari dell’energia.
L’umano ha vissuto per secoli convincendosi che l’amore fosse una sorta di problema gravitazionale tra sostanze irriducibili, la cui soluzione potesse coniugare, almeno in via temporanea, la materia dei viventi e i vuoti dettati proditoriamente dalla presenza della morte. Ha voluto ingannarsi sulla bellezza di un accordo possibile tra le sostanze, ma ha finito altresì per depotenziarsi dietro la materia e i simboli di una soluzione che privilegiava il paradosso di una fissità consolatoria e oltremodo precaria.