[Estratto da: Viviana Leveghi, Carmine Mangone, La materia dell’ulteriore. Elementi per una sapienza erotica, Delos Digital, 2024. L’ebook può essere acquistato sul Delos Store, nonché sui maggiori portali librari on-line, come ad es.: Amazon, Kobo, laFeltrinelli o Fnac. Foto dell’aurora boreale presa dal web.]

Se la sapienza si limitasse a fare la differenza tra noi e l’Altro, non sarebbe più un metodo di bellezza, di compiutezza, bensì un pensiero monco, sterile, impiegatizio.
Le distanze emotive, assai di sovente, sono il frutto guasto di un incivilimento del dolore. L’animale morde, si mimetizza. L’essere umano, invece, non si è limitato a mordere più o meno metaforicamente, ma ha separato, distanziato, allontanato. Non gli è bastato trovare un semplice riparo. Doveva erigere muraglie, fortezze, gerarchie.
I tentativi di salvezza, in situazioni di sofferenza, si possono rivelare altrettanti generatori di dolore, sia per noi stessi che li mettiamo in pratica, sia per coloro che provassero ad amarci volendo bene anche alle nostre paure.
Conoscere il male non significa che una particola di questo stesso male debba passare necessariamente nel bene. Occorre restare vigili e non fare alcuno sconto alle nostre abitudini di pensiero, acquisendo parimenti la capacità (ossia il coraggio, la tenerezza) di mutare il proprio dolore in spalancamento verso la vulnerabile e lacerante bellezza del possibile.
Nel nostro dolore, c’è sempre un intero branco di animali confusi, impauriti. Accarezzare il proprio dolore vuol dire prendersi cura dell’animale che guaisce in noi, indurlo a non mordere, invitarlo a godersi nuovamente il bosco accompagnandolo fino al punto in cui non avrà più alcun bisogno di scodinzolare al proprio male.
Io, come alcuni, come tanti, come l’aurora degli inquieti, ho avuto luogo soltanto dopo aver lasciato la casa del padre. Prima, ero semplicemente un’eventualità, una periferia, un cielo azzurro e vuoto.
Finii per legarmi a coloro che non avevano alcun partito, a coloro che si erano dati una possibilità per le vie traverse della negazione e che, per niente paghi, con sgangherata veemenza, hanno continuato a osare un dubbio, una dimora, una soddisfazione.
Ero stato un bimbo assai silenzioso e che veniva picchiato, un giorno sì e uno no, per i suoi silenzi inesplicabili. Da grande, non ho permesso più a nessuno di toccarmi impunemente. Eppure, chiudendomi a riccio nelle mie fragilità, ho fatto da allora una gran fatica a dare un significato plausibile alla parola tenerezza.
Il mio amore è stato un ossimoro, una battaglia. Ho applicato all’affetto le regole della guerra. Ogni sentimento era una pallottola, una trincea, una linea di fuga. E i colpi che ho inferto al mio stesso destino, ormai, non si contano neanche più.
Oggi, però, cercando di parlarne, mi accorgo di quanto io abbia fretta di lasciarmi alle spalle ogni capitolo, ogni spiegazione. Come se dicessi: va bene, ve lo racconto, ma che duri poco, che io non debba più tornare lì per davvero.
Riavvolgiamo quindi il nastro e procediamo con amore, sia per me che ne parlo, sia per coloro che intendano seguirmi senza burlarsi delle mie esitazioni.
La nascita è un singulto del cosmo, un’improvvisa lacerazione nella membrana dell’eventuale. Alcune energie culminano in un punto e quel punto si anima, si attesta su un segmento risibile e nondimeno avvincente del divenire. Le forze che agiscono in quel punto, trovando un varco attraverso il possibile e costruendo un’armonia passeggera tra le sostanze, addensano un volume, una massa, un corpo, e quest’addensamento è la risultante materiale di un desiderio locale del cosmo.
Tu nasci, vieni proiettato nel mondo, eppure non hai mai preteso di nascere, non hai mai chiesto d’abbandonare volontariamente il limbo eterno delle pure potenzialità. A quel punto, tanto per assumerti la gravità della chance che ti è stata riservata, se hai beninteso un intelletto almeno passabile, non smetti d’interrogarti sul perché sei nato o sul senso che può avere tutto questo continuo ricombinarsi della materia.
Nel mio caso, il cosmo ha voluto che si espiasse esattamente una ben precisa morte. Avevano già deciso: avrei portato il nome di un lutto, il nome di un fratello di mio padre, un altro Carmine Mangone, un Carmine Mangone anteriore, scomparso appena un anno e mezzo prima che io venissi alla luce.
Per la mia famiglia, diventavo un modo provvidenziale per rivalersi sull’ineluttabile. Avrebbero smesso di piangere un morto. Io ero un auspicio di redenzione, un emendamento del destino.
Per me, invece, fin dall’inizio, le cose non dovettero essere così pacifiche. Sembravo riottoso già all’interno dell’utero: avevo un tratto di cordone ombelicale legato assurdamente intorno al collo; mia madre fu quasi squartata da un cesareo; c’era stato un consulto di famiglia per decidere chi salvare in caso di rischio estremo (per la cronaca, avevano stabilito, giustamente, di preservare la madre, non il nascituro).
Insomma, gli altri avrebbero smesso di piangere un morto, ma per me, da quel giorno, la vita si sarebbe rivelata una continua lotta per non piangere il mio nome.
Ora, in nome del padre e dell’odio che gli ho riservato, si è aperta in me una voragine che ho cercato di colmare col cucchiaino della poesia e, in modo ancor più patetico, benché accorato e mai servizievole, portando acqua alle radici del mondo dentro le mie mani a coppa.
La figura paterna aveva avvelenato tutte le fonti. Il dolore doveva restare familiare. Nessuno sconto, nessuna tenerezza. La mia presenza veniva contaminata dal passato, dall’incoerenza, dalla superbia del padre. E quella che sarebbe dovuta essere una cinghia di trasmissione tra il suo sangue e il mio cuore, tradiva tutti i meccanismi dell’affetto e si abbatteva sul mio corpo negli angoli bui della casa.
Il dolore è un agente inquinante dei più coriacei. Colpisce le emozioni, le relazioni, la memoria. Ne compromette l’esito legandole al già vissuto, al già detto. I lividi spariscono, il corpo sembra guarito, eppure, l’interiorità che ha sofferto durante le fasi del proprio sviluppo, col passare degli anni e con l’infittirsi delle esperienze, si scopre asservita alle dinamiche spurie di una difesa istintuale, rozza, che era stata forse necessaria originariamente nel contrastare il male, ma che ora, meccanicamente, diventa una coazione ad autolegittimarsi dentro il perimetro abitudinario delle proprie sofferenze ipostatizzate.
Il dolore patito produce un campo di latenza emozionale all’interno del quale si stabilisce una tendenziale incapacità al compimento affettuoso delle relazioni. La fiducia diventa faticosa, estenuante. Ci si vieta la vulnerabilità. Ci si cautela accampando pretesti per alzare muri. E non solo. La consapevolezza di una tale incapacità può diventare insopportabile e innescare ulteriore sofferenza, ulteriore violenza, sia verso se stessi, sia, ahimè, nei confronti del Fuori, dell’Altro.
I sistemi di difesa psichica introiettati dal singolo giungono a mettere in atto un sordo e diuturno sabotaggio di tutte quelle relazioni che possano, anche solo ipoteticamente, riprodurre le antiche sofferenze.
Ciò nondimeno, imparare a riconoscere e a dire affettuosamente l’emergenza del dolore, è il primo passo per non esiliarsi in un’esclusione preventiva e cautelare del mondo.
è sempre un onore far parte di tutto questo.