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Estratti da: René Char, Comune presenza, accompagnamento alla lettura di C. Mangone, Nautilus, 2025 (pp. 27-31). Nella foto: Char in compagnia di Pablo Picasso (Mougins, 15 settembre 1965).

Dopo aver pubblicato nel 1928, col nome di René-Emile Char (Emile era il nome del padre), la sua prima raccolta di versi, Cloches sur le cœur, contenente poesie scritte tra il 1922 e il 1926 e della quale distruggerà poi in seguito la gran parte delle copie, il giovane poeta fonderà l’anno seguente a Isle-sur-la-Sorgue, con André Cayatte, la rivista «Méridiens». Sempre nel 1929, alla fine di novembre, farà a Parigi la conoscenza dei surrealisti e aderirà ufficialmente al gruppo bretoniano, collaborando con un testo (Profession de foi du sujet) al dodicesimo e ultimo numero de’ «La Révolution surréaliste». Nel 1930, è tra i fondatori della nuova rivista del gruppo: «Le Surréalisme au service de la révolution» e pubblica in novembre uno dei suoi testi più noti: Artine. A mo’ di nota editoriale, Char fa stampare su un giornale il seguente annuncio: «Donne come non se ne vedono, attenzione! POETA CERCA modella per poesie. Sedute di posa esclusivamente durante sonno reciproco. René Char, 8, rue des Saules, Parigi (Inutile arrivare prima che sia calata la notte. La luce mi è fatale). CHI L’HA VISTO, chiedono André Breton e Paul Éluard, chi ha visto IL NOSTRO AMICO René Char da quando ha trovato una modella per poesia, una donna da sogno, una donna così bella da interdire il suo risveglio? La donna era un pericolo per il poeta, come il poeta lo era per la donna. Li abbiamo lasciati sull’orlo d’un precipizio. E niente. Chi può dire dove vada portando questo profumo svanito?». Qualche giorno dopo, a notte fonda, due giovani donne si presentano all’Hotel des Trois Moulins, a Parigi, nel XVII arrondissement, domicilio del poeta, e chiedono d’incontrare un certo René Char…

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René Char, Artine

        Al silenzio di colei che lascia sognanti.

Nel letto che mi avevano preparato c’era: un animale sanguinolento e ferito della grandezza d’una brioche, un tubo di piombo, una raffica di vento, una conchiglia ghiacciata, una cartuccia sparata, due dita d’un guanto, una macchia d’olio; non c’era la porta di una prigione, c’era il gusto dell’amarezza, un diamante da vetraio, un capello, un giorno, una sedia rotta, un baco da seta, l’oggetto rubato, una catenina per abiti, una mosca verde addomesticata, un ramo di corallo, un chiodo da calzolaio, una ruota d’omnibus.

Offrire al volo un bicchiere d’acqua a un cavaliere lanciato a briglia sciolta in un ippodromo invaso dalla folla, suppone, da una parte e dall’altra, una mancanza assoluta di destrezza; Artine apportava questa siccità monumentale agli spiriti che visitava.

L’impaziente si rendeva perfettamente conto del genere di sogni che avrebbe infestato d’ora in avanti il suo cervello, soprattutto nel dominio dell’amore, dove l’attività divorante si manifestava abitualmente al di fuori del tempo sessuale; si sviluppava l’assimilazione, la notte nera, nelle serre ben chiuse.

Artine attraversa senza intoppi il nome di una città. È il silenzio che distacca il sonno.

Gli oggetti designati e raccolti sotto il nome di natura-precisa fan parte dello scenario in cui si svolgono gli atti di erotismo delle sequenze fatali, epopea quotidiana e notturna. I mondi caldi immaginari che circolano incessantemente per la campagna al tempo delle messi, rendono l’occhio aggressivo e la solitudine intollerabile a colui che disponga d’un potere distruttivo. Per gli sconvolgimenti straordinari è nondimeno preferibile affidarsi interamente ad essi.

Lo stato letargico che precedeva Artine, recava gli elementi indispensabili a proiettare impressioni sconcertanti sullo schermo di rovine fluttuanti: trapunta in fiamme precipitata nell’insondabile abisso di tenebre in perpetuo movimento.

Artine, a dispetto degli animali e dei cicloni, conservava una freschezza inesauribile. Mentre passeggiava, era la trasparenza assoluta.

Benché l’apparato della bellezza d’Artine sorga in mezzo alla depressione più attiva, gli spiriti curiosi restano degli spiriti furiosi, gli spiriti indifferenti degli spiriti estremamente curiosi.

Le apparizioni di Artine superavano i confini di queste contrade del sonno, dove il per e il pro sono animati da un’uguale e mortale violenza. Evolvevano tra le pieghe di una seta ardente popolata d’alberi dalle foglie di cenere.

Il calesse, lavato e rimesso a nuovo, l’aveva sempre vinta sull’appartamento tappezzato di salnitro qualora si trattasse d’accogliere, durante una festa interminabile, la moltitudine dei nemici mortali d’Artine. Il volto di legno morto era particolarmente odioso. La corsa affannosa di due amanti a caso lungo le vie principali diventava all’improvviso una distrazione sufficiente per permettere al dramma di svolgersi, daccapo, a cielo aperto.

Talvolta una manovra maldestra faceva cadere sul collo di Artine una testa che non era la mia. L’enorme blocco di zolfo si consumava allora lentamente, senza fumo, presenza in sé e immobilità vibrante.

Il libro aperto sulle ginocchia d’Artine era leggibile solo nei giorni bui. A intervalli irregolari, gli eroi venivano ad apprendere i mali che si sarebbero abbattuti nuovamente su di loro, le vie multiple e terrificanti su cui il loro irreprensibile destino stava nuovamente per impegnarsi.

Preoccupàti unicamente della Fatalità, erano perlopiù d’aspetto piacevole. Si spostavano con lentezza, si mostravano poco loquaci. Esprimevano i loro desideri per mezzo di ampi e imprevedibili movimenti della testa. Sembravano, inoltre, ignorarsi totalmente fra di loro.

Il poeta ha ucciso il suo modello.

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La figura di Artine ricompare in un testo incluso in L’action de la justice est éteinte, pubblicazione risalente al luglio del 1931. Sarà Char stesso, ormai quasi ottuagenario, a raccontare gli antefatti, decisamente surrealisti, alla base della costruzione di quest’avatar femminile, che è una sorta di precipitato poetico di due suoi incontri «capitali».
Il primo risale alla sua tarda adolescenza e a una domenica primaverile trascorsa all’ippodromo Saint-Gervais di Isle-sur-la-Sorgue: qui, una sconosciuta ragazza bionda, il cui nome si rivelerà Françoise de Menthon, lo avvicina, lo bacia sulle labbra e poi scompare tra la folla. Il secondo, qualche anno dopo, prende avvio da una passeggiata notturna con l’amico Francis Curel tra le tombe di un locale cimitero. Casualmente, dopo aver acceso un fiammifero, la sua attenzione viene catturata da una pietra tombale su cui si legge l’iscrizione: «Lola Abba, 1912-1929»; una giovane morta, dunque, il cui nome gli fa tornare in mente un fatto di cronaca di qualche giorno prima al quale non aveva prestato inizialmente granché attenzione: una tragedia, una morte per annegamento. Due settimane più tardi, qualcuno suona alla porta dei Névons, residenza della famiglia Char. René va ad aprire e si trova di fronte una ragazza che cerca lavoro come domestica. Indeciso sul da farsi e in assenza della madre, le propone di ripassare. «Impossibile», risponde la giovane donna, al che il poeta le tende un foglio di carta e una matita per annotare nome e dati di contatto. Esitante, la ragazza scarabocchia qualcosa e poi scompare rapidamente lungo il viale della tenuta. Quale non è la sorpresa di Char, allorché, rientrando in casa e dando uno sguardo distratto al messaggio lasciato, nota il nome della visitatrice: Lola Abba…