Tag

, , , , , , ,

Entriamo sempre più nel vivo… Ben vengano critiche, suggestioni, testimonianze, ecc. [La fotografia è di Sally Mann.]

Rimettersi in cammino. Trovare un passo, un ritmo. Sintonizzarsi sul battito dell’essenziale che resiste nel sangue, nel pensiero. Disposizioni di base che servono a darci un percorso, a liberarlo dalle pietre, dagli inciampi, a indugiare sugli scorci che arricchiscono il nostro paesaggio interiore, a sentirci materia, a vederci accorpati all’oscurità della trasformazione. Corpo che si snoda. Corpo percorribile. Materia antesignana di una ricomposizione che è ancora a portata di mano, di sesso, di «spirito».
L’agitatore poetico non è un semplice viandante, non si limita a seguire la via. Egli la crea e la ricrea in base al ritmo del proprio andare; un andare che si rivela parte integrante di un progetto per tornare a sé, per tornare a casa, per sentirsi accolto e mai fuori luogo tutte le volte che si riesca ad alimentare una condivisione, una consonanza.
Sennonché, per poter costruire un percorso autonomo evitando i sensi unici indotti dalla macchina sociale, occorrerà uscire dal cerchio magico della circolazione. Circolazione delle merci, circolazione degli umani ridotti a merce, circolazione delle idee dominanti che riducono a merce ogni elemento dell’esistente. Quindi, se gli schemi sociali e le mappe psicologiche di massa portano in direzioni che ledono l’autonomia e l’unicità dei singoli, bisognerà per forza divergere, costruire delle deviazioni, innescare digressioni fatali nel discorso dominante e farsi traviamento consapevole dell’autoritarismo sociale, familiare.
A mio avviso, costruire consapevolmente e criticamente delle deviazioni di percorso insieme ai propri affetti, ci consentirebbe di eludere, sormontare o cambiare di segno gran parte delle affezioni psicologiche che attanagliano l’umano contemporaneo. Si tratta d’un vero e proprio campo minato, me ne rendo conto, ma non mi pare che l’esasperata diagnostica psicologica e psichiatrica di massa ci stia conducendo verso un miglioramento tangibile, anzi! La psiche umana è intrappolata storicamente in dinamiche sociali che la indirizzano autisticamente verso un’incessante valorizzazione del desiderio, la cui frenetica ricombinazione economica disattende quasi puntualmente le aspettative in gioco producendo un diffuso disagio mentale e allargando sempre più lo spettro dei disturbi psichici.

Ora, in che cosa differirebbe una deviazione critico-consapevole (dentro un territorio, dentro lo spazio del pensiero) rispetto a un disagio psicologico o a una malattia mentale diagnosticata dalla medicina moderna?

Spiegare un processo che attiene il vissuto o il vivibile, può soltanto approssimarsi all’esperienza o all’eventualità delle relazioni. Da un punto di vista teorico, lo sviluppo della realtà, almeno in parte, rimane indecidibile. Il suo rivelarsi falsa o vera dipende infatti da un concorso di fattori, di percezioni, di condotte. Il riconoscimento e la costruzione della verità sono d’altronde in stretto rapporto con l’incisività e la sanità dell’approccio critico.
Quando qui parlo di «sanità della critica» intendo riferirmi ad alcune linee d’intervento del pensiero che si possono riassumere nei seguenti punti: a) mai accamparsi in riflessioni che risultano dolorose o sfavorevoli al proprio sviluppo psicofisico; b) non bisogna forzare la coniugazione di pensieri che vanno in direzioni tra loro opposte e che mettono a repentaglio la chiarificazione e il rigore del nostro pensare; c) i pensieri che diventano familiari possono istituire troppa confidenza, troppa sicumera, e vanno puntualmente verificati per evitare la banalizzazione o la vanagloria della propria intelligenza; d) se ci sentiamo «accerchiati» dall’Altro, dal pensiero dell’Altro, dall’ossessione che possiamo avere per la presenza dell’Altro, dobbiamo fermarci a osservare il nostro panorama mentale in modo da individuare dei varchi, delle linee di fuga; preferire allo scontro diretto il rendersi «invisibili», il muoversi nelle retrovie del «nemico», il colpirlo ai fianchi imparando a gestire la propria potenza, le proprie forze; dobbiamo lottare e battagliare in campo aperto soltanto quand’è assolutamente inevitabile (se il nemico è «interno», ci si deve focalizzare sui pensieri e sulle azioni che lo depotenziano stornando parte delle nostre energie verso quelle manovre che possano rompere la «linea del fronte» e ripristinare una consonanza tra i nostri ritmi e quelli del mondo circostante); e) la pulizia del proprio territorio mentale è importante quanto l’autonomia e la nettezza che cerchiamo d’infondere ai nostri pensieri, quindi quel territorio va tenuto in ordine, va spazzato, va potato, va arieggiato adeguatamente; ricordarsi però che c’è un pensiero-vento che pulisce l’aria e un pensiero-vento che porta burrasca – dovremo imparare pertanto a riconoscerli e a impiegarli in modo opportuno per limitare l’innesco di dinamiche deleterie.

La prima deviazione di percorso – la deviazione fondamentale – è smettere d’indagare le origini del proprio dolore mentale per cominciare invece ad analizzarne le modalità, i tempi e gli ambienti attraverso i quali esso si ripete e si manifesta.
Per lungo tempo – mi riferisco a un tempo storico capitalizzato dalla psicanalisi e dalle varie terapeutiche più o meno razionali e più o meno religiose della psiche –, abbiamo finito invariabilmente per dare la colpa dei nostri limiti e delle nostre fallacie a qualcuno o a qualcosa che ritenevamo determinante: Padre, Madre, peccato originale, «sistema», destino, ecc. Ci siamo quindi impegnati nel dosare i nostri giudizi e le nostre sentenze per individuare le eventuali colpe a monte, spesso remote, indistinte, e per non lavorare efficacemente e faticosamente sulle ostruzioni a valle; operazione, questa, molto più gravosa, in quanto avrebbe messo in discussione delle parti attive e ancora doloranti della nostra specificità psicofisica.

La colpa è un pervertimento, una cicatrizzazione parziale della dipendenza. Si trasforma la mancanza in condanna. Si fa del giudizio una lama e non un lume. Si lascia che gli affetti manchevoli diventino affezioni autoassolutorie. Si preferisce, per convenienza o per paura, che incomba sulla propria testa la spada di Damocle di una stabilità mortifera, convertibile in sofferenza di scambio, in monetizzazione sentimentale del dolore, anziché darsi il coraggio di tagliare il nodo di Gordio dei rapporti che ci intossicano. Nell’economia del dolore, nessuna delle parti in gioco è in attivo.

Laureana Cilento, 4-5 agosto 2025 (continua – 7).