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Uno dei problemi dell’amore, e dell’affetto in genere, e che noi, assai di frequente, pur dicendo e credendo di amare un determinato essere vivente, non sappiamo o vogliamo amare, con quello stesso essere, ciò che egli ama anche a prescindere dalla nostra presenza. Il che, beninteso, non può costringerci a ridimensionare ciò che siamo, ma deve almeno indurci a non reputare centrale o addirittura superiore il nostro modo di amare.
Ogni com-unicità si fonda essenzialmente sulle affinità esistenti tra i suoi membri, ciò mi pare fin troppo ovvio, eppure il suo sviluppo e la sua permanenza non possono permettersi di trascurare le differenze, le discordanze. Una cogestione il più armonica possibile delle diversità, delle specificità singolari, resta una disposizione fondamentale per il benessere dell’unione. Certo, l’altro resta sempre (e almeno in parte) irrimediabilmente altro, su questo non possiamo che arrenderci all’evidenza. Tuttavia, l’alterità che accettiamo o cerchiamo in modo selettivo, emotivo, dev’essere considerata ogni volta come una chance per allargare il proprio territorio senza occupare o assediare lo spazio altrui, mirando a far sì che in tal modo possa nascere un sottoinsieme condiviso, un territorio comune, uno spazio dove poter «evolvere» tutti insieme di comune accordo.

Primo esercizio del giorno: predisporsi a vedere e ad agire il bene, non il male. Il pensiero, allo stesso modo dell’acqua, si adatterà al contenitore.
Il bene è l’emergenza della poesia (l’irruzione della compiutezza) nelle piccole cose del giorno. Gli elementi del mondo si riuniscono in un senso compiuto, folgorante, leggero. La gravità del necessario si trasforma in levità del comune deframmentando l’esistente e riaccorpandolo al movimento dell’essenziale, al respiro del vivente.
Il caffè caldo. Il rumore delle ciotole che richiama i gatti. La valle brumosa. La necessità del lavoro che non corrompe il desiderio di respirare a pieni polmoni.

– Ho cercato d’incolparti perché tu non potevi amarmi come il mio Io avrebbe voluto. La delusione nasce dall’arroganza del desiderio. Il voler dare una consistenza particolare alla realtà non può condurci a esprimere dei giudizi assoluti. L’Io non può diventare un burocrate del noi; va sminato, va trasformato in campo arabile, va vissuto come un terreno che attenda la seminagione, il maggese, le rugiade compiacenti della primavera.

Nella problematicità del venirsi incontro, nella costruzione di un’adiacenza che sappia darsi delle rispettose compenetrazioni di carne e spirito, ci toccherà contrastare il dominio del simbolico che va affermandosi dentro il «discorso amoroso» al solo fine d’edulcorare e rappresentare esteticamente la distanza. Io e te. Il tuo Io e me. I due tasselli di una impossibile comunizzazione del desiderio. L’abbaglio romantico di un definitivo che resta inattingibile. La solita fregatura derivante dalla ricerca di un assoluto. Il noi, purtroppo, non è mai stato refrattario alle riduzioni, il che fa sì che la prossimità affettuosa di due voci si perverta sovente nell’approssimazione sentimentale di un discorso che irrigidisce la com-unicità a partire da una presunzione ottusamente fusionale.

Secondo esercizio del giorno: accordare il respiro ai desideri e non soltanto alla necessità. Riempire i polmoni, imparare a sentirli colmi, felici, e trovare un ritmo di vita che sia amico del respiro dando ossigeno in via prioritaria ai due flussi sovrani della poesia, vale a dire: la responsabilità nel costruire una bellezza condivisa e la leggerezza nel viverne compiutamente la portata.

Laureana Cilento, 5-6 agosto 2025 (continua – 8). Fotografia: Laura Makabresku.