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RATGEB (Raoul Vaneigem), Dallo sciopero selvaggio all’autogestione generalizzata, con nuova introduzione dell’autore e un saggio di Carmine Mangone, Gwynplaine edizioni, Camerano (AN), marzo 2013, 164 pagine, 13 euro, no copyright.

Un altro estratto del libro > QUI <



KONICA MINOLTA DIGITAL CAMERANel 1974, il situazionista belga Raoul Vaneigem pubblica l’opuscolo De la grève sauvage à l’autogestion généralisée [Dallo sciopero selvaggio all’autogestione generalizzata].
Per l’occasione, Vaneigem utilizza lo pseudonimo di Ratgeb, ispirandosi al pittore tedesco Jörg Ratgeb (1480 ca. – 1526), un artista coevo di Dürer e Grünewald, il quale, per aver partecipato alla Guerra dei contadini del 1525 schierandosi coi rivoltosi, fu poi accusato di alto tradimento e giustiziato tramite squartamento a Pforzheim.
Il pamphlet in questione, il cui sottotitolo è già tutto un programma (“Contributi alla lotta degli operai rivoluzionari, destinati ad essere discussi, corretti e soprattutto messi in pratica senza perdere tempo”), pur risentendo ancora pesantemente delle idee consiliariste propugnate dall’Internazionale Situazionista nell’ultimo decennio della sua esistenza, brilla certamente per la sua nettezza e per la capacità di delineare in una manciata di pagine la necessità e la gioia della rivoluzione sociale.
L’edizione Gwynplaine presenta una nuova traduzione del testo vaneigemiano e comprende anche l’ultimo capitolo dell’opera (“L’autogestione generalizzata”), omesso almeno in un paio di precedenti edizioni italiane, il tutto accompagnato da una nuova introduzione di Raoul, redatta nel novembre 2012, e da un mio saggio di oltre sessanta cartelle posto in appendice (Contro ogni alienazione, II). Qui di seguito vi propongo alcuni estratti dal primo capitolo del Ratgeb (“La società della sopravvivenza”).


cover-ratgeb


(…)
2. Avete provato almeno una volta il desiderio di non lavorare (senza far lavorare gli altri al vostro posto)?

In questo caso, avete compreso che:
a) Anche se il lavoro forzato dovesse produrre solo beni utili, come abiti, cibo, tecnica, comfort…, non risulterebbe meno oppressivo e inumano, perché:
– il lavoratore sarebbe ancora spossessato del proprio prodotto e sottomesso alle stesse leggi del profitto e del potere.
– il lavoratore continuerebbe col trascorrere al lavoro dieci volte il tempo necessario ad una organizzazione piacevole della creatività per mettere a disposizione di tutti beni cento volte maggiori.
b) Nel sistema mercantile, che domina ovunque, il lavoro forzato non ha per scopo, come si vuol far credere, quello di produrre beni utili e gradevoli a tutti, bensì quello di produrre merci. Indipendentemente dal valore d’uso utile, inutile o nocivo che possano contenere, le merci non hanno altra funzione che garantire il profitto e il potere della classe dominante. In un tale sistema, tutti lavorano per nulla e ne hanno sempre più coscienza.
c) Accumulando e rinnovando le merci, il lavoro forzato aumenta il potere dei padroni, dei burocrati, dei capi, degli ideologi. Diventa così oggetto di disgusto per i lavoratori. Ogni sospensione del lavoro è un modo per ridiventare noi stessi, nonché una sfida verso coloro che ce lo impediscono.
d) Il lavoro forzato produce soltanto merci. Ogni merce è inseparabile dalla menzogna che la rappresenta. Il lavoro forzato produce dunque menzogne, produce un mondo di rappresentazioni menzognere, un mondo capovolto in cui l’immagine prende il posto della realtà. In questo sistema spettacolare e mercantile, il lavoro forzato produce su se stesso due importanti menzogne:
– la prima, è che il lavoro sia utile e necessario e che lavorare sia interesse di tutti;
– la seconda, è far credere che i lavoratori siano incapaci di emanciparsi dal lavoro e dal salariato, che non possano edificare una società radicalmente nuova, fondata sulla creazione collettiva e attraente, sull’autogestione generalizzata.

In sostanza, voi lottate già, coscientemente o no, per una società in cui la fine del lavoro forzato lasci il posto alla creatività collettiva regolata dai desideri di ciascuno e alla distribuzione gratuita dei beni necessari alla costruzione della vita quotidiana. La fine del lavoro forzato significa la fine del sistema in cui regnano il profitto, il potere gerarchizzato, la menzogna generale. Significa la fine del sistema spettacolar-mercantile e avvia il cambiamento globale di tutte le preoccupazioni. La ricerca di un’armonia delle passioni, finalmente liberate e riconosciute, prenderà il posto della corsa al denaro e alle briciole di potere (…).

8. Tranne che in rari momenti, vi accade di provare il sentimento sgradevole di non appartenervi, di essere diventati stranieri a voi stessi?

In questo caso, avete compreso che:
a) Attraverso ognuno dei nostri gesti – meccanizzati, ripetuti, separati gli uni dagli altri – il tempo si sbriciola e, pezzo dopo pezzo, ci strappa a noi stessi. Questi tempi morti si riproducono e si accumulano lavorando e facendoci lavorare per la riproduzione e l’accumulazione delle merci.
b) L’invecchiare, oggi, non è altro che l’aumento dei tempi morti, del tempo in cui la vita si perde. È per questo motivo che non ci sono né giovani né vecchi, ma individui più o meno vivi. I nostri nemici sono coloro che credono e fanno credere che il cambiamento globale sia impossibile; sono i morti che ci governano e i morti che si lasciano governare.
c) Noi lavoriamo, mangiamo, leggiamo, dormiamo, consumiamo, ci divertiamo, assorbiamo cultura, ci facciamo curare, e in tal modo sopravviviamo come piante d’appartamento. Sopravviviamo contro tutto ciò che ci incita a vivere. Sopravviviamo per un sistema totalitario e inumano – una religione di cose ed immagini – che ci recupera quasi ovunque e quasi sempre per aumentare i profitti e i poteri della classe burocratico-borghese.
d) Noi saremmo semplicemente ciò che fa sopravvivere il sistema mercantile, se talvolta non ridiventassimo di colpo noi stessi, se non venissimo còlti dal desiderio di vivere appassionatamente. Anziché venir vissuti per procura, per immagini interposte, i momenti autenticamente vissuti e il piacere senza riserve (unito al rifiuto di ciò che l’ostacola o lo falsifica), sono altrettanti colpi portati al sistema spettacolar-mercantile. Basta dar loro una maggiore coerenza per estenderli, moltiplicarli e rafforzarli.
e) Creando appassionatamente le condizioni favorevoli allo sviluppo delle passioni, noi vogliamo distruggere ciò che ci distrugge. La rivoluzione è la passione che permette tutte le altre. Una passione senza rivoluzione è la rovina del piacere.

In sostanza, voi ne avete abbastanza del trascinarvi tra tempi morti e obblighi. E lottate già, coscientemente o no, per una società la cui base non sarà più la corsa al profitto e al potere ma la ricerca e l’armonizzazione delle passioni da vivere (…).

15. Vi è mai capitato di sputare sul prete che passa? D’aver voglia di bruciare una chiesa, un tempio, una moschea, una sinagoga?

In caso affermativo, avete compreso che:
a) La religione è l’oppio della creatura oppressa.
b) Ogni religione chiama al sacrificio; ciò che chiama al sacrificio è sempre religioso (i militanti, ad esempio).
c) La religione è il modello universale della menzogna, il capovolgimento del reale a profitto di un mondo mitico, che diverrà, una volta desacralizzato, lo spettacolo della vita quotidiana.
d) Il sistema mercantile dissacra, distrugge lo spirito religioso e ridicolizza i suoi articoli di merce (papa, corano, bibbia, crocifisso…), ma, allo stesso tempo, li conserva come incitamento continuo a preferire l’apparenza al reale, la sofferenza al piacere, lo spettacolo al vissuto, la sottomissione alla libertà, il sistema dominante alle passioni. Lo spettacolo è la nuova religione e la cultura è il suo spirito critico.
e) I simboli religiosi attestano la permanenza del disprezzo che i regimi gerarchici di tutti i tempi hanno riservato agli uomini. Tanto per fare un esempio: il Cristo…
Al primo posto tra le succursali delle produzioni divine, le Chiese cristiane hanno adottato, su pressione del processo mercantile, un’esibizione da contorsionisti che vedrà la fine solo con la definitiva scomparsa del suo simbolo pubblicitario: il camaleonte Gesù. Figlio di dio, figlio di puttana, figlio di vergine, facitore di miracoli e di panini, pederasta e puritano, militante e membro del servizio d’ordine, accusatore e accusato, uomo di fatica e astronauta, non c’è un solo ruolo che non sia alla portata di questo straordinario fantoccio. Lo si è visto come mercante di sofferenze, piazzista di miracoli, sanculotto, socialista, fascista, antifascista, stalinista, guerrigliero, reichiano, anarchico. È stato sotto tutte le insegne, su ogni bandiera, dalle due parti del manganello, nella maggior parte delle esecuzioni capitali, ove compare sia tra le mani del carnefice sia tra quelle del condannato. Trova posto nei commissariati, nelle prigioni, nelle scuole, nei bordelli, nelle caserme, nei grandi magazzini, nelle zone di guerriglia. Ha servito da ciondolo, da cartello stradale, da spaventapasseri per tenere in pace i morti e in ginocchio i vivi, da tortura e da dieta dimagrante; servirà da cazzo artificiale quando i mercanti di prepuzi sacri avranno riabilitato commercialmente il peccato. Povero Maometto, povero Budda, povero Confucio, tristi rappresentanti di ditte concorrenti senza immaginazione né dinamismo: Gesù vince su tutti i fronti. Gesù Cristo superdroga e superstar: immagine di ogni venduto a dio in una vendita promozionale da dio.
La pellicina scrotale del dio-padre-fantasma tirata con tre spilli e trasformata in amuleto è il simbolo più completo dell’uomo come merce universale.

In sostanza, voi lottate già, coscientemente o no, per una società in cui sarà scomparsa l’organizzazione della sofferenza e delle sue compensazioni; in cui l’idea di dio non avrà più alcun senso perché ognuno sarà padrone di se stesso; in cui, sopra ogni cosa, i problemi del vissuto autentico e delle passioni da soddisfare prevarranno definitivamente sui problemi della vita invertita e delle passioni represse (…).

[Traduz. di Carmine Mangone]

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