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Nel giugno del 2010 ho scritto L’odio della poesia. Annotazioni che sento sempre più mie e che qui ripropongo, non cambiando neanche una virgola di quanto scritto due anni fa.
Dietro il titolo, rubato a Georges Bataille, non si deve leggere un semplice rigetto delle più trite preoccupazioni letterarie, ma anche e soprattutto la necessità di costruire pratiche gioiose, prodighe e ingovernabili contro la banalizzazione dell’umanità e il totalitarismo mercantile.
A mio avviso, le scritture e le pretese poetiche mantengono un senso soltanto se si pongono come riverbero e rilancio di una poesia reale delle relazioni, sciogliendosi quindi in esperienze e costruzione di comunanze. In caso contrario, restano gusci vuoti, monologhi noiosi, trascrizioni di un processo di separazione dal mondo che si sostanzia attraverso una specifica alienazione culturale.

Asger Jorn, Grand baiser au cardinal d’Amerique, 1960.

Non è affatto un esercizio azzardato, né tanto meno lezioso, criticare radicalmente la poesia [1], sebbene ci sia la diffusa credenza che la poesia basti a se stessa e che quindi si possa solo falsificarla interpretandola o ponendola di fronte alle sue contraddizioni.
 
La critica radicale della poesia non è una forma particolare di letteratura, né tanto meno si risolve in una teoria o si limita ad essa.
Una tale critica prepara semmai la fine della poesia e inizia là dove la poesia si arresta in quanto dimensione separata, esistente solo a parole.
 
Ciò che ancora si suole definire poesia non unisce gli uomini, se non in modo fittizio e banalmente culturale, separando in realtà la parola poetica da un mondo di relazioni sociali che ha davvero ben poco di poetico.
 
Mostrare il movimento della poesia – all’opera nello sviluppo storico dell’umanità – ci porta dunque ad evidenziarne la progressiva fuga da questo mondo e, allo stesso tempo, ad escogitare nuove situazioni per restituirlo concretamente alla bellezza ancora possibile dei rapporti.
 
Qui non si nega certo che la poesia – in quanto pratica separata o mero genere letterario – possa ancora scatenare un brivido, una sensazione di apertura sovrana sull’esistente, ma questo avviene solo in ciò che la nostra vita e il mondo hanno di manchevole, di perduto, di non ancora vissuto.
 
La poesia è una forma del mistero – e si rivela parte integrante di un sistema che alimenta o ridefinisce il mistero mantenendolo al di sopra degli uomini.
Il mistero è una lacuna, un deficit nella nostra capacità di vivere e pensare il mondo – genera l’impotenza, la paura, il sacro, la fede, la progressiva inabilità a riconoscere le manifestazioni autentiche del vivente.
Il mistero è la merce, è il denaro – è l’ombra di un Dio licenziato da tempo e che ormai lavora in nero per potersi permettere almeno un finto paradiso a prezzi da discount.
 
La poesia è e rimane insufficiente finché si limita a imbellettare – e a tollerare – le sufficienze di coloro che la relegano in un mero genere letterario per paura che tutto il mondo possa diventare improvvisamente poetico e rivoltarsi contro di loro.
Risolvendo il mistero, l’unità fittizia del mondo va in frantumi. E ogni frammento, ogni dettaglio di ciò che era “mondo” assume un’importanza essenziale e si vive infine per ciò che è: bellezza del possibile – e pratica condivisa della bellezza – a tu per tu con la singolarità dei viventi.
 
La poesia è un’attività particolare dell’uomo, ma l’uomo non è un’attività particolare della poesia. Non si può confondere l’aratro con la mano di chi ara, né credere di poter ovviare alle mancanze dell’uomo organizzandole o dicendole in un modo diverso.
L’organizzazione delle parole è fondamentale, certo, ma le fondamenta dell’edificio sono ben più complesse dei tanti castelli di parole che se ne diramano. Tali fondazioni sono gettate sull’esperienza umana della realtà – esperienza che produce anche le parole e che spesso, paradossalmente, viene elusa proprio da queste.
 
La poesia come ambito separato delle conoscenze va oltrepassata, realizzata nel suo stesso annientamento.
Occorre tornare all’oralità; risparmiare carta, alberi; riscoprire le voci al di qua del Libro; parlarsi addosso, leccarsi, urlarsi contro, spidocchiare ogni aggettivo superfluo.
Rimbaud è morto per i suoi peccati, non per i nostri.
Bisogna ricominciare da dove si sono fermate le avanguardie estetiche e politiche del Novecento (surrealisti, situazionisti) rifondando in senso libertario le loro pratiche del gruppo, dell’amore, della rivolta.
Bisogna metter mano a comunità amorose e ingovernabili – come culmini possibili delle teorie sovversive di ogni tempo – a partire dalle ceneri della poesia o per farla rinascere come volontà dentro il mondo che fluisce con noi.
L’alternativa – una volta di più – è tra chi difende questo mondo, facendosi paladino dei suoi dettagli insignificanti (per quanto lucrosi), e chi si muove invece nel flusso degli eventi e delle parole per cercare di sovvertire la banalità dell’esistente.


[1] La poesia storicamente determinata, a partire dal superamento della tradizione orale, si può definire come l’organizzazione delle parole, della loro origine e del loro fine dentro una cornice estetica – fondata sulla valorizzazione delle forme – che ne fissa il senso separandolo dal flusso della vita quotidiana e liquidandone i luoghi comuni senza necessariamente superarli nella realtà di chi produce o consuma poesia.

 

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