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A Felice Caputo
Mio caro amico, ritengo che sia impossibile imboccare sempre la strada giusta ad ogni incrocio della vita. A volte ci perdiamo, altre volte prendiamo un vicolo cieco, spesso abbiamo la tentazione di tornare indietro e inventarci magari un nuovo percorso. Ma non funziona, sappiamo che non funziona. E non ci sta bene neanche il fermarci all’incrocio, il bivaccare lì, rinchiudendoci all’interno di un’idea, di una casa, di una comunanza. Lo facciamo, certo, anche noi lo facciamo, e cerchiamo comunque di viver bene, sulla soglia, nella sosta, in modo da riprendere fiato, uscire dall’apnea, riordinare i pensieri, poi però dobbiamo ripartire, rilanciare la posta, rimettere in moto un destino di movimenti che non vogliamo deludere – e che non potremmo sicuramente eludere senza tradire una parte essenziale di noi stessi.
Siamo uomini d’amore e di furore, il che implica in noi due dinamiche “mostruose”: non stiamo mai fermi con e dentro il cuore – il nostro “luogo comune” per antonomasia, la nostra commedia – e, più di tutto, abbiamo costantemente l’errore all’ordine del giorno (stavo per dire: all’occhiello).
D’altronde, chi si muove, può inciampare ad ogni passo. Solo chi sta fermo non corre questo rischio o cade sempre in piedi – o forse no, forse si cade molto più malamente nella stasi delle emozioni, del pensiero; ci si fa molto più male nel de-cadere dentro un progetto di stabilità, di “conservazione”, chissà.
Invece noi andiamo – andiamo bellamente, costantemente – e ci assumiamo tutte le contraddizioni, tutti le intese possibili tra il nostro saper vivere e gli inciampi eventuali. E ne ridiamo, anche, perché bisogna saper ridere ad ogni scatto, ad ogni possibilità d’inciampo, senza mai precludersi la bellezza di rialzarsi impolverati, divertiti, riconoscendo che la caduta può essere solo un altro modo per saggiare il mondo, toccare l’essenziale, abbracciare il destino.
Abbiamo sempre nutrito una presunzione. Ci siamo sempre voluti in guerra contro i limiti del possibile. Siamo di quelli che hanno optato per una costitutiva mancanza di giudizio. Il bello è che ci piace proprio così, malgrado le tante difficoltà che ci colgono ad ogni passo (e ad ogni piè di pagina del giorno); in fondo, non sapremmo svolgere altrimenti questo bel mestiere di uomini che ci siamo dati – e che ci porta a cercare cocciutamente una poesia irrimediabile in ogni gesto, in ogni presenza.
Una presunzione faticosa, davvero faticosa, della quale talvolta vorremmo liberarci (ma che ci fa amare o detestare dagli altri, diventando così un elemento fondamentale della nostra unicità, delle nostre aperture).
Una fatica, una guerra che non finirà mai, e che non è neanche una vera guerra, quanto piuttosto un’attività sovrana, un teatro a cielo aperto, dove noi ci divertiamo ad imbrogliare di continuo le relazioni tra realtà e rappresentazione, con buona pace di chi ha paura dei nostri abissi fioriti.
La nostra presunzione consiste nel voler amare senza condizioni, senza economie.
Un movimento pauroso, bisogna ammetterlo, e che affascina anche le pietre, perché non conosce sentenza di morte, neanche al cospetto della nostra più nera stanchezza.
La verità, è che vogliamo giocare, che non abbiamo mai smesso di giocare.
Giocare senza regole, senza paura del tramonto che induce tanti altri a rincasare.
Il pensiero è un’altalena, la poesia una pistola giocattolo. Siamo tutti indiani! Evviva le pozzanghere! La notte sarà lunga, sarà bella.
Chi avrà mai paura dell’amore, all’alba, nel ripartire sulle strade dopo la compiutezza del gioco?
22 maggio 2015. Immagini prese dal web.
L’ha ribloggato su sergiofalcone.