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HannesCaspar1



ad Angela


Avete mai pensato ai coni d’ombra dei luoghi pubblici e alla rumorosa oscurità dei toccamenti che vi avvengono? Si potrebbe quasi dire che la scarsa “pubblicità” di certi toccamenti giunga a fondare realmente la natura pubblica dei nostri luoghi comuni.
L’erba fa un gran rumore quando cresce negli interstizî del grigio.

In fondo al parco, c’è qualcuno che non vorresti mai incontrare. Eppure lo attendi da sempre. E da sempre ti vai aprendo, per farlo entrare meglio dentro la chiusura dello spazio.
Un’algebra convulsiva. Tutti noi vogliamo un’algebra convulsiva, ma solo in pochi scavalcano il cancello, solo in pochi s’appendono nudi al gancio del cervello.

C’è poi questa macchia che si chiama memoria. Questo rincorrersi di simboli che non vogliamo ricomporre, ma sbranare, lacerare ulteriormente. Zeus tagliò in due l’androgino e ne fece combaciare le parti a suo piacimento. Noi invece restiamo sul taglio, danziamo sulla lama, abbiamo preteso che si divorziasse da ogni banale pretesa euclidea. − Errata corrige: siamo noi il taglio.

Cerco di fissare. Nel senso di vedere, veder esplodere, non di bloccare le detonazioni.
Sembra un cielo. Ti dico che sembra un cielo. Invece è il lupanare di Dio, le pagine di una realtà intrisa di sperma, cosparsa di calce, esplosa nei libri o nell’invaginazione del pensiero. (Che cosa dovrebbe essere? Cosa cazzo dovrei attendermi dal neutro della luce?!).

Ti apro. E lungo ogni corrugamento del tuo mondo trovo una fessura, una possibilità. Il primo uomo mangiò il frutto della conoscenza e si vide nudo; allora ebbe paura, paura della sua stessa esposizione, e si coprì stupidamente con un pezzo morto di quella stessa natura che urlava da ogni suo poro esposto. Tutto quel bianco te lo dovrai cacciare in gola! Anche quando ti avrò aperto, anche quando ti riconoscerai una tua propria unicità, saremo pur sempre a metà dell’opera.

Questa neve. Questa neve sporca di parole. Questo latte sporco che è provvida vischiosità. Ti fa reggere, ti fa beare, e accompagna il seme fin sull’ultima bocca.

In ogni modo, non si riuscirà nella cottura del corpo. Si lascerà un sedimento, un libro perennemente aperto, un battaglione di semi che si lancerà ben oltre il tuo giardino.

Lungo la coscia, un rivolo di pensiero. Cattura della regina, gioco ucciso. Rubedo, rubedo, turbine che prepara il giorno!

Appare una nebulosa. Sento gridare la fessura tra le tue natiche. Gocciolamento spinoziano, parvenza di vortice.

Si resta con un graffio, la lista della spesa e alcuni orfani del movimento.

Il femminile non rappresenta la continuità. Il femminile È la continuità. Ecco il motivo per cui ci vogliamo da sempre intrisi d’acqua, tumescenti, tumultescenti. Qualcuno potrebbe forse obiettare che anche l’aria pervade tutto, che anche l’aria valica i confini delle cose, però l’aria è secca, l’aria non ci riporta ottusamente alle sorgenti del gioco.

Mi piacciono le catastrofi nel bel mezzo del colore; quei disastri ormai blandamente familiari che ci riportano alle fondamenta. Ad esempio, il sanguinamento bonario di un arancione, il suo spargersi sul selciato, quell’improvvisa falla che fa gridare i bianchi circostanti − come pure la cattura di alcuni segni dentro il perimetro incerto della nostra ragione, mai chiavata abbastanza.

Ti sposi coi tuoi graffi, con alcune fissurazioni dell’altrui visione.
Segno scaccia segno? No, segno incula segno.

Ma poi alla fine Zeus viene fregato. E anche il Nazareno. Appaiono fantasmi che accoppiano i viventi e li fanno gioire in piena costernazione. L’arte, il cavallo abbracciato da Nietzsche, la morte della morte. Ciò che vuole separarci muore inopinatamente dentro l’esercizio di un accanimento. Io sono neutro perché con ogni sesso possibile del pensiero e sono neutrale perché in guerra contro qualsiasi elusione della materia vivente.

«C’è un limite oltre il quale l’esercizio di un’arte, qualunque essa sia, diventa un insulto alla sventura» (Maurice Blanchot).

Ecco. Passa l’aria attraverso il quadro. Il sesso è una finestra. I figli della decomposizione richiamano l’idea del movimento.

Se ci pensi, un vicolo cieco ha una sua definitiva bellezza: graffiando il muro invalicabile che ti si para di fronte puoi sempre disegnare un nuovo zodiaco. Mi dirai che la cosa non serve a niente, che certe mappe non ti aprono alcun mondo. Bene, neanche la morte lo fa.

Governare la tensione è compito assai difficile. Inutile modellare il tuo corpo come se fosse argine. La tensione non può essere ostacolata. Nel flusso, e nelle sfumature della vita, devi anticipare la foce.



4 aprile 2016. Fotografia di Hannes Caspar. Molti di questi frammenti sono confluiti successivamente in Se questo si chiama amore, io non mi chiamo in alcun modo (2018, Ab imis).