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Il testo che segue è tratto da Il corpo esplicito. Breve storia critica dell’erotismo occidentale (2017). Illustrano il post, due foto di Marguerite Duras e un lavoro di Hans Bellmer per Madame Edwarda di Bataille.

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Le difficoltà contemporanee dell’amore sono rese splendidamente, anche nella loro difficile, penosa decifrabilità, da un breve romanzo di Marguerite Duras: La Maladie de la mort (1982). I protagonisti sono un uomo (forse omosessuale) e una donna che lui paga per alcune notti, ma che non è una prostituta. Lungo tutto lo snodarsi della narrazione, resta preminente l’interrogarsi dell’uomo. Anzi, le questioni poste dall’uomo rappresentano i nodi stessi della narrazione e riguardano la sua (presunta) impossibilità ad amare, a desiderare, a realizzare l’amore. La donna definisce questa impossibilità usando una definizione folgorante e lapidaria: “malattia della morte.” Morte intesa come inabilità a creare un territorio comune, come seppellimento del sé nell’Io interrogante, come ricerca pretestuosa di un metodo, di un progetto che sopravviva ai corpi senza metterli in gioco compiutamente. Lei non contrasta la malattia della morte, non si ritiene la cura, né si pone il problema di esserlo; nell’economia della narrazione, si limita a impiegare il proprio corpo insieme a pochissime parole. La sua comunicazione è un tentativo di salvaguardia dell’essenziale. Non dice molto. Risponde con semplicità, affermando senza violenza la sostanziale incapacità dell’uomo a privarsi dell’interrogazione. Si fa pagare, rispetta il contratto e infine sparisce, ma non resta succube dello scambio, non si preoccupa di creare un’intesa a partire dalla valorizzazione del suo corpo. Sparisce e basta, dopo aver riempito la stanza e le notti con il suo corpo, con l’eventualità di un amore neanche tentato.
In tutto questo, lui si accontenta di perderla senza perdersi, sapendo fin dall’inizio che si sarebbe mantenuto alla superficie di uno smacco annunciato. Questa è la sua vera colpa: mancare di coraggio e averlo sempre saputo; sentirsi l’amante dell’impossibile per restare il depositario di un amore intangibile, ideale. Sulla pelle dei corpi – e del corpus narrativo – rimane il desiderio più vero, ridotto ormai a una supplica, a un esercizio letterario: «Voi chiedete come potrebbe nascere il sentimento d’amore. Lei vi risponde: Forse da una frattura improvvisa nella logica dell’universo. Dice: per esempio da un errore. Dice: mai da un volere. Voi chiedete: Il sentimento d’amore potrebbe arrivare anche da altro? La supplicate di rispondere. Lei dice: Da tutto, da un volo d’uccello notturno, da un sonno, dal sognare di dormire, dall’avvicinarsi della morte, da una parola, da un crimine, da sé, da se stessi, improvvisamente, senza sapere come. Dice: Guardate. Apre le gambe e, nell’incavo delle gambe aperte, voi vedete infine la notte nera. Dite: Eccola, la notte nera, è qui.»
Davanti allo spalancamento del desiderio e all’ostensione del sesso, le parole non reggono, non riescono a compiere in via definitiva la tessitura del senso, della comprensione. Malgrado il profluvio d’immagini erotiche – e la stanchezza, la noia che si abbatte su colui che guarda – il discorso amoroso non dice mai del tutto l’impeto, la beatitudine o la gioia di quando le pieghe segrete del corpo si offrono agli occhi dell’amante, del mondo.

Vi è una presunzione capitale nello spalancare le gambe e nell’annunciare la notte nera a chi ci sta di fronte. È la presunzione di coloro che si credono vicini all’amore più degli altri e che, in questa superbia, si credono prossimi pure a Dio. Ecco il senso di Madame Edwarda di Bataille: la prostituta del racconto, a un certo punto, si apre le grandi labbra, spalanca il proprio sesso di fronte al protagonista e gli offre così una sorta di sacramento, di ufficio carnale, rompendo con ogni forma di colpa o innocenza. In quanto visione e tramite del sacro (anzi, di Dio stesso!), si concede infine senza contropartita al primo venuto, cioè al tassista che li carica entrambi in auto all’uscita dal bordello.
Ora, non si prepara forse qui una sospensione dello scambio e la trasmissione del sacro attraverso una comunione che non ha più bisogno di ostie o di mediazioni economiche? Il sacro si annuncia spalancando le profondità del corpo. L’origin du monde di Courbet è anche la fine (il fine?) di ogni ricerca: banalità di base rappresentata dalle tumescenze genitali che cortocircuitano il pensiero, nonché ricomposizione possibile di ogni separazione sociale, esistenziale, e ciò in un abbandono sovrano, in un movimento fiducioso. Non a caso, la banalità delle ostensioni carnali e la loro pericolosa innocenza sono sempre state osteggiate e criminalizzate dalle istituzioni religiose, proprio perché ridimensionano le mediazioni simboliche o politiche che separano il carnale dalla compiutezza dell’esperienza umana. (…)