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bel pensante, etica, Giorgio Agamben, l'insopportabile questione delle parole, La fine del pensiero, la voce umana (?)
Avviene come quando camminiamo nel bosco e a un tratto, inaudita, ci sorprende la varietà delle voci animali. Fischi, trilli, chioccolii, tocchi come di legno o metallo scheggiato, zirli, frulli, bisbigli: ogni animale ha il suo suono, che scaturisce immediatamente da lui. Alla fine, la duplice nota del cucco schernisce il nostro silenzio e ci rivela, insostenibile, il nostro essere, unici, senza voce nel coro infinito delle voci animali. Allora proviamo a parlare, a pensare.
La parola pensiero ha in origine, nella nostra lingua, il significato di angoscia, di ansioso rovello, che ha ancora nell’espressione familiare: «stare in pensiero». Il verbo latino pendere, da cui la parola deriva alle lingue romanze, significa «stare in sospeso». Agostino lo usa in questo senso per caratterizzare il processo della conoscenza: «Il desiderio, che è nella ricerca, procede da chi cerca e sta, in qualche modo, in sospeso (pendet quodammodo) e non riposa nel fine a cui tende, se non quando ciò che è cercato viene trovato e si unisce a colui che cerca».
Che cosa sta in sospeso, che cosa «pende» nel pensiero ? Pensare, nel linguaggio, noi lo possiamo solo perché il linguaggio è e non è la nostra voce . C’è una pendenza, una questione non risolta nel linguaggio: se esso sia o no la nostra voce, come il raglio è voce dell’asino e il frinito è voce del grillo. Per questo non possiamo, parlando, fare a meno di pensare, di tenere in sospeso le parole. Il pensiero è la pendenza della voce nel linguaggio.
(Il grillo – è chiaro – non può pensare nel suo frinito).
Quando camminiamo a sera nel bosco, a ogni passo sentiamo fra i cespugli che fiancheggiano il sentiero frusciare animali invisibili, non sappiamo se lucertole o ricci, tordi o serpenti. Così avviene quando pensiamo: importante non è il sentiero di parola che andiamo percorrendo, ma lo zampettio indistinto che a volte sentiamo muovere a lato, come di una bestia in fuga o di qualcosa che, all’improvviso, si desti al suono dei passi.
La bestia in fuga, che ci pare di sentir frusciare via nelle parole, è – ci è stato detto – la nostra voce. Pensiamo – teniamo in sospeso le parole e stiamo noi stessi come sospesi nel linguaggio – perché speriamo di ritrovare in esso, alla fine, la voce. Un tempo – ci è stato detto – la voce si è scritta nel linguaggio. La cerca della voce nel linguaggio è il pensiero.
Che il linguaggio sorprenda e anticipi sempre la voce, che la pendenza della voce nel linguaggio non abbia mai fine: questo è il problema della filosofia. (Come ciascuno risolva questa pendenza è l’etica).
Ma la voce, la voce umana non c’è. Non c’è una nostra voce che noi possiamo seguire alla traccia nel linguaggio, cogliere – per ricordarla – nel punto in cui dilegua nei nomi, si scrive nelle lettere. Noi parliamo con la voce che non abbiamo, che non è mai stata scritta (ἄγραπτα νόμιμα, Antigone, 454). E il linguaggio è sempre «lettera morta».
Pensare, noi lo possiamo solo se il linguaggio non è la nostra voce, solo se in esso misuriamo fino in fondo – non c’è, in verità, fondo – la nostra afonia. Ciò che chiamiamo mondo è quest’abisso.
La logica mostra che il linguaggio non è la mia voce. La voce – essa dice – è stata, ma non è più, né mai potrà essere. Il linguaggio ha luogo nel non-luogo delle voce. Ciò significa che il pensiero ha da pensare nulla della voce. Questa è la sua pietà.
Dunque la fuga, la pendenza della voce nel linguaggio deve aver fine. Possiamo cessare di tenere in sospeso il linguaggio, la voce. Se la voce non è mai stata, se il pensiero è pensiero della voce, esso non ha più nulla da pensare. Il pensiero compiuto non ha più pensiero.
Del termine latino che, per secoli, ha indicato il pensiero, cogitare, nella nostra lingua è rimasta appena una traccia nella parola tracotanza. Ancora nel sec. XIV, coto, cuitanza, vogliono dire: pensiero. Tracotanza deriva, attraverso il provenzale oltra-cuidansa, da un latino * ultracogitare: eccedere, passare il limite del pensiero, soprappensare, spensare.
Ciò che è stato detto, si potrà dire di nuovo. Ma ciò che è stato pensato, non potrà più essere detto. Dalla parola pensata, tu prendi congedo per sempre.
Camminiamo nel bosco: a un tratto sentiamo un frullo d’ali o d’erba smossa. Una fagianella spicca il volo e appena la vediamo sparire fra i rami, un istrice s’interna nella macchia più folta, sgrigiolano le foglie arse su cui rotola la serpe. Non l’incontro, ma questa fuga di bestie invisibili è il pensiero. No, non era la nostra voce. Ci siamo avvicinati al linguaggio per quanto era possibile, quasi lo abbiamo sfiorato, tenuto in sospeso: ma il nostro incontro non è avvenuto e ora torniamo ad allontanarcene, spensieratamente, verso casa.
Dunque il linguaggio è la nostra voce, il nostro linguaggio. Come tu ora parli, questo è l’etica.
Giorgio Agamben, La fine del pensiero / La fin de la pensée, Le Nouveau Commerce, Paris, 1982 [ITA/FRA]. Supplemento ai nn. 53/54 della rivista “Nouveau Commerce” (traduzione in francese di Gérard Macé).
mi fa riflettere, cogitare, questo concetto di pensiero come essere in bilico, in sospeso
Sì, ci sono degli spunti stimolanti. Peraltro, su YouTube, c’è il video di una sua conferenza sul tema della voce: https://www.youtube.com/watch?v=qPINXrSDAr8 Un po’ pedantesca, come cosa, ma mai banale. Il discorso verte intorno a ciò che Aristotele poneva nella voce e che concerne il processo di antropogenesi e l’utilizzo storico dei “gràmmata”.