1
Album di famiglia
Io ero Amleto. Me stavo sulla costa a parlare alle onde BLA BLA, dando le spalle alle rovine d’Europa. Le campane suonavano per i funerali di Stato, assassino e vedova erano una bella coppia, i cortigiani, al passo dell’oca, piangevano il lutto per pochi soldi dietro il feretro dell’illustre defunto CHI È IL CADAVERE NEL CARRO FUNEBRE / A CHI VANNO TANTI STREPITI E LAMENTI / IL MORTO ERA UN GRANDE / ELEMOSINIERE. Il consenso del popolo, frutto della sua arte di governo. ERA UN UOMO VERO E PRENDEVA TUTTO A TUTTI. Io fermo il corteo funebre, forzo la cassa con la spada, rompo la lama ma sollevo il coperchio con il troncone. Così feci a pezzi il morto genitore LA CARNE SI ACCOPPIA VOLENTIERI CON LA CARNE distribuendolo ai poveracci che stavano attorno. Il funerale si tramutò in giubilo, il giubilo in un gran masticare. L’assassino irrumò la vedova sulla bara vuota DEVO AIUTARTI A SALIRE ZIO? MAMMA APRI LE GAMBE. Mi sdraiai per terra e ascoltai la terra girare al ritmo costante della putrefazione.
(…)
A questo punto entra lo spettro che mi ha generato, con l’ascia ancora nel cranio. Puoi tenerti il cappello in testa, lo so, lo so che hai un buco di troppo. Io invece avrei voluto che mia madre ne avesse uno di meno, quando tu eri ancora ben in carne, così sarei stato risparmiato a me stesso. Bisognerebbe cucire le donne, un mondo senza madri. Potremmo macellarci a vicenda in santa pace e con buone probabilità, qualora la vita ci risultasse troppo lunga e la gola troppo stretta per urlare. Cosa vuoi da me? Non ti basta un funerale di Stato? Vecchio parassita. Non hai forse del sangue sulle scarpe? Che m’importa del tuo cadavere. Dovresti essere contento che almeno il manico sia rimasto fuori. Forse te ne andrai in cielo. Che cosa aspetti? I galli sono stati sgozzati. Non ci sarà un domani.
(…)
Entra Orazio. Complice dei miei pensieri, che son pieni di sangue da quando il mattino è stato velato dal cielo vuoto. È TROPPO TARDI AMICO MIO PER ACCORDARCI SUI QUATTRINI / NON C’È POSTO PER TE NELLA MIA TRAGEDIA. Orazio, tu mi conosci. Mi sei amico, Orazio. Se mi conosci, come puoi essermi amico? Vuoi giocare a fare Polonio, che desidera dormire con sua figlia, la splendida Ofelia; lei risponde docile al proprio nome, come la voce di un dizionario. Guarda come fa ondeggiare il didietro, un ruolo tragico. Orazio/Polonio. Lo sapevo che eri un attore. Lo sono anch’io, recito Amleto. La Danimarca è una prigione, tra di noi cresce un muro. Guarda cosa spunta dal muro. Polonio esce. Mia madre è la sposa. I suoi seni sono un letto di rose, il grembo la fossa dei serpenti. Hai dimenticato il tuo testo, mamma. Ti faccio io da suggeritore. LAVA VIA IL DELITTO DALLA TUA FACCIA Ô MIO PRINCIPE / E FA’ BUON VISO ALLA NUOVA DANIMARCA. Ti farò tornare vergine, madre, perché il re possa godersi una notte nuziale al sangue. IL GREMBO MATERNO NON È UNA VIA A SENSO UNICO. Ora ti lego le mani dietro la schiena, perché mi disgusta il tuo abbraccio col velo da sposa. Ora strappo il tuo abito nuziale. Ora devi urlare. Ora spalmo sugli stracci del tuo abito nuziale la fanghiglia in cui è ridotto mio padre, e ti spiaccico gli stracci sulla faccia, sul ventre, sui seni. Ora ti prendo, madre mia, ripercorrendo la traccia invisibile di mio padre. Soffoco il tuo grido con le mie labbra. Riconosci il frutto del tuo seno. Ora va’ alle tue nozze, puttana, sotto il sole danese che splende sui vivi e sui morti. Voglio otturare il cesso con il cadavere, affinché il palazzo affoghi nella merda regale. E poi lasciami mangiare il tuo cuore, Ofelia, che piangi le mie lacrime.
2
L’Europa delle donne
Enormous room. Ofelia. Il suo cuore è un orologio.
OFELIA [CORO/AMLETO]
Io sono Ofelia. Quella che il fiume non ha voluto. La donna con la corda al collo La donna con le vene tagliate La donna con l’overdose SULLE LABBRA NEVE La donna con la testa nel forno a gas. Ieri ho smesso di uccidermi. Sono sola con i miei seni le mie cosce il mio grembo. Faccio a pezzi gli strumenti della mia prigionia la sedia il letto il tavolo. Distruggo il campo di battaglia che era la mia dimora. Strappo le porte perché possa entrare il vento e il grido del mondo. Mando in frantumi la finestra. Con le mani insanguinate strappo le fotografie degli uomini che ho amato e che mi hanno usata a letto a tavola sulla sedia per terra. Do fuoco al mio carcere. Getto i vestiti nel fuoco. Mi strappo l’orologio dal petto che era il mio cuore. Esco in strada, vestita del mio sangue.
(…)
4
Pest(e) a Buda Battaglia per la Groenlandia
(…)
Io non sono Amleto. Non recito più alcun ruolo. Le mie parole non dicono più niente. I miei pensieri succhiano sangue alle immagini. Il mio dramma non si terrà più. Dietro di me viene approntato lo scenario. Da gente cui il mio dramma non interessa, per gente cui non ha niente da dire. Neanche a me interessa più. Non sto più al gioco. Senza essere notati da Amleto, degli operai di scena introducono un frigorifero e tre televisori. Rumore del frigo. Tre programmi a volume nullo. Il fondale è una statua. Rappresenta, ingrandito cento volte, un uomo che ha fatto la Storia. Pietrificazione d’una speranza. Il nome può variare. La speranza non si è realizzata. Il monumento giace per terra, abbattuto tre anni dopo il funerale di Stato dell’uomo di potere, odiato e venerato dai suoi successori. La pietra è abitata. Nelle narici ampie, nelle orecchie, tra le pieghe della pelle e dell’uniforme della statua in frantumi si è stabilita la popolazione più povera della metropoli. All’abbattimento della statua, dopo un ragionevole lasso di tempo, tenne dietro la rivolta. Il mio dramma, se ancora dovesse aver luogo, si terrebbe nel periodo della ribellione. La rivolta ebbe inizio come una passeggiata. Contro la regolamentazione del traffico durante l’orario di lavoro. La strada appartiene ai pedoni. Qua e là viene rovesciata un’auto. Incubo di un lanciatore di coltelli: lento viaggio, in una strada a senso unico, verso un ineluttabile parcheggio circondato da pedoni armati. I poliziotti che si trovano sul percorso sono respinti ai margini della strada. Quando il corteo si avvicina al quartiere ministeriale, viene fronteggiato da un cordone di polizia. Si formano gruppi dai quali spuntano oratori. Sul balcone di un edificio governativo appare un uomo vestito con un frac di cattiva foggia e comincia a parlare anch’egli. Quando viene colpito dalla prima pietra, si ripara dietro il vetro blindato di una finestra. Le urla che chiedono più libertà si trasformano in urla che chiedono la caduta del governo. La gente comincia a disarmare i poliziotti, vengono assaliti due o tre edifici una prigione una stazione di polizia un ufficio della polizia segreta, una dozzina di sgherri del potere vengono appesi per i piedi, il governo invia truppe e carri armati. Il mio posto, se questo dramma avesse ancora luogo, sarebbe su entrambi i fronti, sulla linea tra i due fronti. Me ne sto nel puzzo di sudore della folla e getto pietre contro poliziotti, soldati, carri armati, vetri blindati. Guardo attraverso la finestra col vetro blindato la folla che avanza e sento il sudore della mia paura. Soffocando i conati di vomito, scuoto il pugno contro di me che sto dietro la porta a vetri. Sento la morsa della paura, del disprezzo, e nella massa che avanza vedo me stesso, con la bava alla bocca, scuotere il pugno contro di me. Appendo per i piedi l’uniforme della mia carne. Sono il soldato nella torretta del carro armato, la mia testa è vuota sotto l’elmetto, l’urlo coperto dal rumore dei cingoli. Io sono la macchina da scrivere. Stringo il nodo scorsoio quando i caporioni vengono impiccati, tiro via lo sgabello, mi rompo l’osso del collo. Sono il mio prigioniero. Riempio i computer coi miei dati. I miei ruoli sono quelli della saliva e della sputacchiera, del coltello e della ferita, del morso e della gola, della corda e del collo. Io sono la banca dati. Sanguinante tra la folla. Con il fiato sospeso dietro la porta col vetro blindato. A secernere muco di parole nell’isolamento della mia bolla insonorizzata sopra la mischia. Il mio dramma non è andato in scena. Il copione è andato perduto. Gli attori hanno appeso i loro volti ad un attaccapanni del guardaroba. Il suggeritore marcisce nella sua buca. In platea, imbalsamati, i morti di peste non muovono un dito. Vado a casa ad ammazzare il tempo, tutt’uno con il mio Io indiviso.
(…)
*
Testo integrale sul sito della Maldoror Press. Foto di scena tratta da: AMLETO + DIE FORTINBRASMACHINE della compagna Lombardi-Tiezzi (prima: 15 luglio 2016).
Grazie mille!
Grazie a te. :*