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Dimostro una scarsa saggezza verso il divenire. Mi perdo, mi accapiglio con l’incertezza del pensiero e non distolgo mai le parole dalle mie pochissime certezze, dai miei tic, dalla mia protervia di vivere. Mi rendo comune anziché comunicarmi. Mi ascolto mentre sento il mondo e faccio una piega al divenire a ogni sobbalzo del pensiero. Procedo a scatti, a balzi. Sono un cattivo dialettico, lo so, ma il mondo mi ama lo stesso, non mi ostacola quando cambio prospettiva e purifico le mie visioni, o almeno così credo. Gli ulivi mi sorridono, le stelle non hanno bisogno delle mie idee e do per certo che l’adiacenza gentile di tutte le cose diminuisca la fatica di pensarle. Mi basta fare una pausa nella carne del pensiero, nel flusso patetico delle parole, e allora la materia accade, il bosco respira e la gioia delle cose uccide l’eternità amandola mortalmente.

L’eterno è noioso, quasi irritante, se lo si pensa unicamente come fissità e non come diuturno, insondabile rifacimento.
La noia è l’installazione dell’eternità dentro i vuoti della vita, l’insofferenza verso ogni paradiso che si trascini acriticamente senza darci in pasto alla controversia.
Chi lo dice all’«ermo colle» che un giorno anch’esso verrà inghiottito dal movimento delle stelle e che gli abitanti d’un pianeta distante anni luce potranno leggerlo soltanto come radiazione surreale dello spazio profondo?
Per intanto, ci godiamo l’ordine che diamo ai nostri godimenti e ne traiamo la continuità degli eventi che affida un senso alla nostra presenza.
In realtà, quando crediamo di toccare il fondo del pensiero, restiamo ancora e sempre alla periferia dell’universo.
Senza una risposta definitiva alle grandi questioni dell’esistenza, il nostro corpo continua a volerci morti e le stelle occhieggiano indifferenti, ma tutto questo non ci vieta di dare un contenuto, una gravità al nostro esserci.
Volendomi senza speranza, ponendomi cioè agli antipodi di ogni dinamica consolatoria o attendista, ritengo che l’unico vero auspicio, l’unica vera affermazione di potenza del vivente, sia fare a meno di tutte le aspettative più o meno razionali derivanti dalla brama di durata.
Per quanti sforzi si faccia, la vita resta irrimediabilmente priva di causa, ma è proprio questa sua assenza di giustificazione a poterci proiettare ovunque, senza limiti, senza pietà, nell’immane grandezza del possibile.
In ogni modo, tocca a noi la scelta, l’avventura, tenendo ben presente che là dove accetteremo un azzardo, in quel punto si amplieranno ogni volta il territorio del vivente e la sua riflessività acerrima.
Se smettiamo di sperare, andiamo incontro a ogni nostro possibile, ma solo se scongiuriamo la disperazione che nasce dal deficit di comunanza, ossia dalla difficoltà reale (e tutta moderna) che hanno gli umani nel costruire amicizia tra i viventi.
«In breve, sperare significa: avere idee sbagliate sulla vita, su ciò che esige e su ciò che può offrire, e soprattutto su ciò che si ha da compiere e da reggere senza speranza» (Gottfried Benn).

Testo e foto: Carmine Mangone.