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Aprire il territorio che si estende fra le nostre braccia. Andare oltre la nostra presa, i nostri oggetti, l’oggetto del nostro pensiero.
L’abbraccio non è un recinto. Non si recinge il movimento che è dentro l’intesa. Ogni corpo – ogni idea del corpo – nasce dall’affrontare le proprie aperture insieme all’Altro cercando di non chiudersi nei propri scambi d’intensità.
Opponendosi al carattere stanziale del pensiero, l’accoglienza non è inclusione, bensì affetto, comunanza, eventualità di un’unione che non si radica dentro un’idea fissa dell’unità, né tanto meno in apparati di domesticazione. L’accoglienza non è una politica, bensì un’erotica.

Nel film Ferro 3 del regista sud-coreano Kim Ki-duk, il protagonista maschile s’introduce di nascosto in case temporaneamente disabitate e le vive rispettando spazi e cose dei proprietari. Anzi, in molte delle abitazioni, egli si ritrova addirittura a lavare i panni degli assenti o a ripararne gli oggetti rotti.
Abbiamo quindi un’intrusione nel territorio dell’Altro che conduce l’attore del movimento a verificare le mappe dell’esistente ricalcandole, e ad occupare gli spazi degli assenti accogliendone tuttavia i “luoghi comuni”. Abbiamo cioè un’ospitalità senz’accordo, ma anche senza reale trasgressione. Un’ospitalità che si priva del suo stesso statuto e che, nondimeno, si pone come apertura sovrana sulla compresenza possibile.

(L’ospite è la linea di fuga che ci riporta a casa, il possibile che occupa un territorio per ricrearne la poesia, i luoghi, l’orizzonte degli eventi).

Nel film di Kim-Ki duk, l’ospitato surroga quindi l’ospitante ignaro e ne viola i diritti senza però stravolgerne i codici o la gestione del territorio.
Ci sarebbe tuttavia da chiedersi, al cospetto di un simile paradosso, se si possa ancora parlare di ospitalità.
Non si rivelerebbe forse qui, attraverso quest’intrusione rispettosa, benché illegale, un inusitato riaffiorare del vivente (e delle sue forze) oltre ogni nozione di diritto? Non si potrebbe forse dire che la Legge, restando fuori della porta, sia qui l’unica vera espropriata, visto che l’ospitato lascia intatto il territorio e gli elementi che vi sono soggetti originariamente?
Ho scritto “intrusione rispettosa”. Il che non implica quindi un’invasione, una volontà di conquista o uno stravolgimento dell’intesa possibile.
In questo caso, si sospende il contratto tra gli attori in gioco, lo si elude, ma solo dislocandolo incessantemente attraverso i movimenti che danno un senso al territorio e ai corpi che vi si muovono.
Il contratto non muore, ma diventa altro. La staticità degli oggetti e l’arroccamento tendenziale del pensiero umano all’interno di relazioni “storicizzate”, lasciano il posto ad una ricerca del vivente (e della sua unicità) che si sviluppa lungo i territori, dentro le relazioni, nel lasciarsi abitare dall’Altro.
In altre parole, qui siamo in presenza di una porta sempre socchiusa di fronte all’insieme dei possibili – e sottolineo: una porta, non una semplice feritoia.

 

 

Un tempo si parlava di “case chiuse”, indicando con questa formula i luoghi dedicati alla compravendita dei corpi e del sesso; ossia quei luoghi dove la prostituzione veniva “marginalizzata” in un dominio (una domus) purché restasse funzionale alla complessiva valorizzazione economica del vivente.
A mio avviso, la chiusura delle “case chiuse”, non ha rappresentato una reale apertura delle stesse, bensì un aspetto di quella che si potrebbe vedere come chiusura generalizzata e tendenziale di ogni idea di casa a beneficio di una massiccia valorizzazione degli spostamenti tra punti ben precisi del territorio.
Voglio dire: si sono aperte le “case chiuse” per sottrarre ogni idea di casa all’apertura, alla gioia dell’azzardo (anche architettonico, anche strutturale) diffondendo a macchia d’olio, su un piano molto più vasto, una chiusura essenziale.

Ai poteri che governano lo spazio-tempo della contemporaneità, interessa in primo luogo la circolazione, lo scorrimento sempre più veloce di merci, corpi, informazioni. Le case devono restare chiuse. Si aprono soltanto quando diventano nodi essenziali alla circolazione. Tutto avviene sempre altrove. Bisogna correre, “trafficare”. Solo le autostrade della merce sono importanti. I panni sporchi si lavano in famiglia, soprattutto se non producono profitto.

Ecco allora le probabili parole d’ordine da attuare senza perdere tempo: boicottare la circolazione per reinventare l’ospitalità; entrare nelle “case chiuse” per liberare i fantasmi dei residenti e anche i proprî (ancora Ferro 3, il finale); abitare il movimento per non farsi occupare dagli spazi che recintiamo.

Intrusione rispettosa e reciproca, insomma. Perché senza reciprocità (senza mutualità) non c’è una reale comunanza, non può esserci una ricombinazione collettiva e vitale dei luoghi comuni, e non ci sarà mai sperimentazione, oltrepassamento dei limiti da parte dei giocatori, ma solo un susseguirsi di guerre d’occupazione in un altrove spettacolare sul quale non abbiamo alcuna presa reale.