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Viversi come padre, madre e figlio di se stesso. Amante, anche. Genitore e amante di se stesso.
Rompere col triangolo edipico e perdonare la propria nascita.
Mettersi nuovamente al mondo attraverso le proprie scelte, nel proprio mondo.
Accogliere le paure senza maledire le contraddizioni.
Prendere per mano le proprie follie e sanarle tra le braccia del desiderio, soprattutto quando quest’ultimo sembra una di quelle follie.
Coltivare la compassione verso il possibile, verso ogni possibile, in modo da raccogliere i semi traditi o abbandonati dal padre, dalla madre. Seminarli dentro di sé senza mai chiedere perdono. Innaffiarli con lo sperma, la saliva, gli umori vaginali, il godimento – non con le lacrime, non con la sofferenza.
Abolire i sensi di colpa dal divenire del mondo.
Reinventarsi ogni giorno una prossimità senza rimedio fra gli affetti che ci regalano la compiutezza di un’esperienza.
Eppure, non è così facile. Cercare un’immediatezza, una rinnovata semplicità nei rapporti con gli altri, tra i sessi, non è affatto facile. Incidono abitudini di pensiero e schemi comportamentali che vengono da molto lontano: dalle vicende intergenerazionali della propria famiglia, dalla storia del proprio ambiente sociale.
Non è mai facile scalfire i rapporti materiali che difendono o nascondono gli affetti, le mancanze verso gli affetti. Ci vuole lucidità e forza d’animo, e anche non poco coraggio, per andare a smuovere gli strati di assuefazione, rassegnazione e paura che contrassegnano i rapporti tra i viventi.
Bisogna avere altresì la capacità di sviluppare un linguaggio realmente comune, capace di toccare le corde giuste, ma senza perdere troppo in immediatezza. Se non si parla all’Altro e non si permette all’Altro di parlarci, se non riusciamo a trovare forme e discorsi capaci di “abitare la distanza”, se ci ostiniamo a parlarci addosso senza ricreare i luoghi comuni di un’intesa, si apriranno davanti a noi, continuamente, gli spazi spaventevoli di un deserto relazionale.
In tutto questo, però, occorre anche dotarsi della convinzione e della forza indispensabili per tagliare i rami secchi e sottrarsi agli eventuali vicoli ciechi. Soprattutto, bisogna riconoscere i sensi di colpa e liberarsene senza compromettere la nostra consonanza col mondo. Il senso di colpa è la dinamica che tende a “suicidare” lentamente l’unicità e l’intelligenza dei viventi; è il cuneo del potere (e dei micropoteri familiari, sociali, ecc.) che s’incastra nella carne viva dei nostri desideri pervertendoli e inchiodandoli miseramente a una politica quotidiana del compromesso.
Laureana, 2020. Nelle foto: performance di Millie Brown.