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Manifesto per un incontro d’amore
Un’orazione gettata nel mondo, come la seppia il suo nero

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Per chi crede che l’altro non sia l’inferno, né il purgatorio, né il paradiso,
che sia solo altro e che sia tempo di perdonarlo per questo.
Per chi non ha ancora capito come si faccia e accetta, al termine della lettura, di continuare a non saperlo, benché, forse, sia tentato di farlo.

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I princìpi del discorso

Per cominciare a parlare d’incontro, occorre partire dalla consapevolezza – ovvia, certo, come lo sono molte cose brutalmente vere – che tutto quanto si incontra e si scontra, ciò che nel mondo esiste ed insiste a far mostra di sé, è percepibile solo in relazione alla materia altra che si muove dentro, intorno e per la materia. Per necessità di sintesi, chiamiamo una porzione di questo caos che va in-contro all’altro: io. Ora, a me pare inequivocabile che ciò che per comodità chiamiamo io sia un noi, condannato a una pluralità che si singolarizza in un’identità narrativa, raccontata come tale perché si mantenga il senso e il senno dell’essere, ma che resta evidentemente molteplice. Non vivo forse abitata da miliardi di batteri? Non potrebbero esserci miriadi di invisibili acari sulle mie ciglia? Non inalo altra vita ad ogni respiro? E che dire di quanto ingurgito e che ritesse ogni spazio interiore? Come considerare tutto quel che scolpisce i confini del mio corpo e che chiamo inorganico, apparendomi inanimato? Io, quindi, sono una finzione; ma è da questa finzione che sono destinata e condannata a partire per esperire l’altro che si appalesa e mi ferisce e mi sferza e mi avvolge e mi costringe a sentirmi, a mia volta, alterata ed altèra.

Cos’ho capito io, allora, del mondo e delle relazioni? Cos’è che credo di sapere o di saper fare abbastanza bene da permettermi il lusso di manifestare teorie, suggerire pratiche, invocare soluzioni? Forse, quel che in quarant’anni ho appreso nel dettaglio è l’arte dello scavo interiore, del sondaggio delle mie profondità, delle mie altezze, tanto da essere riuscita a farmi una pur vaga idea di cosa significhi essere umani, di chi questi umani siano e di cosa cerchino. Io ci credo che ognuno sia unico, ma penso che chiunque sia anche radicalmente simile e che, perciò, se si riesce nel tentativo di scoprirsi, alla fine, si arriva a percepire brandelli di verità umano-universali che consentono di aprirsi all’altro in quanto parte dell’inconscio collettivo, potendogli quindi perdonare di essere fuori-da-sé, familiare eppure estraneo. Perturbante per definizione.

Ogni persona è per forza di cose un impasto irripetibile di storie, sensazioni, pensieri, emozioni, modi espressivi… Eppure i composti di base sono limitati e costanti, esattamente come gli elementi della chimica. Chiunque abbia letto abbastanza, e specie se ha l’abitudine di leggere più testi contemporaneamente, avrà notato che i concetti che gli umani elaborano e si ripetono ossessivamente da millenni s’assomigliano nella sostanza, pur se appaiono in infinite configurazioni, in forme inedite capaci di far balenare le riflessioni come fossero autentiche, nuove, appena svelate. Ascoltando i dialoghi che autori trapassati e viventi vanno inscenando nella mente d’ogni lettore e lettrice, appare evidente come – alla fine – si discuta sempre delle stesse cose, precipitando nelle stesse emozioni, anatomizzando le solite sensazioni nel tentativo di afferrare un senso per le esistenze individuali e collettive. E questo perché gli esseri umani mi paiono alla costante ricerca di risposte originali a domande originarie. E sebbene le risposte sembrino l’oggetto finale di ogni ricerca, sono le domande a risultare caratterizzanti della nostra specie. Sono le interrogazioni a predirci umani. Ancor prima che le visioni, i progetti e le soluzioni possibili, sono i bisogni a piombarci tutti nello stesso abisso, a intrappolarci nella medesima rete, a renderci riconoscibili come simili l’uno agli occhi dell’altra. La guerra è la stessa, e pure il fronte, e l’avversario non è l’altro, ma la morte.

Ognuno conosce l’invidia e l’ammirazione, entrambe le ha esplorate e covate nei recessi dello stomaco e negli angoli della mente, ma non tutti le avvertono con la stessa intensità, non tutti si lasciano definire dall’uno o dall’altro sentimento risultando per lo più invidiosi o ammiranti. Tutti conoscono la solidarietà o l’egoismo, hanno esperito emozioni simili a diversi gradi, in differenti contesti e momenti, per cui diventa possibile riconoscerle e usarle secondo dosaggi che rendono il composto peculiare, ma non per questo del tutto alieno. L’idea che ogni persona sia un pianeta a sé, o possa al massimo essere raggruppata in base al genere cui sente di appartenere, alla “razza”, o alla classe mi pare utile solo in senso politico, vale a dire per rompere i ranghi e le celle, le sovrastrutture storico-sociali che determinano discriminazione e disuguaglianza, ma non si tratta di una separazione iscritta nella materia, sancita dall’evidenza scientifica e psicologica. Ecco perché ritengo che una volta che si sia appresa l’arte di andare a dissotterrare ogni elemento dell’esser umani che compone la nostra identità – non importa quanto sia lucente od ombroso, nascosto o evidente, censurato o urlato, coperto di vergogna o affermato con orgoglio – si finisca per forza col coltivare il talento di vedere e riconoscere nell’altra persona un’esperienza di vita che non possiamo penetrare, abitare, ma per mezzo della quale possiamo offrirci, presentificarci: perdonare. Non intendo dire che l’altro sia uno specchio, né tanto meno il ricettacolo delle nostre emissioni, ma, piuttosto, una finestra. L’altro mi ri-guarda, per dirla con Lévinas, nel senso che mi offre la possibilità di una rivelazione e mi chiama alla responsabilità in senso pieno: non tanto alla cura, al farsi carico, ma alla capacità di offrire una risposta ai suoi desideri e alla necessità che sia compatibile con le mie esigenze di libertà e autenticità. Ho quindi l’impressione che l’urgenza di un pieno e sconvolgente incontro sia possibile solo quando non si cerca un’identificazione e, anzi, all’opposto, solo se si accetta di aprirsi alla rivelazione e di immergersi nell’esplorazione. E non credo neppure che nell’assumersi la responsabilità dell’altro si debba agire una radicale rinuncia alla libertà, ché ogni scelta – quando è vera scelta – è libertà in azione, pur sempre condizionata, anche se paia imprigionata dalle stringenti dinamiche della relazione.

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Tutto, forse, parte dal fatto di essere animali, vale a dire esseri costretti a risolvere i problemi muovendosi, andando incontro alla lotta o scegliendo la fuga, ridefinendo ogni volta il perimetro entro cui si muovono, in conflitto, la spinta all’autoconservazione e il dovere di arrischiare l’apertura che garantisce l’evoluzione. Siamo esseri animati, nomadici, costretti a sentire un’identità singolare perché la nostra sopravvivenza dipende dal mantenimento di una letterale integrità e non si nutre di luce ma di linfa e di sangue, di vita. Non sono molte le parti del corpo che possiamo perdere senza morire. Assai poco, in noi, ricresce una volta reciso. Non è lo stesso per le piante, ché affrontano e risolvono problemi senza bisogno di spostarsi, muovendosi poco e lentamente, allungandosi, radicandosi e flettendosi senza mai abbandonare il luogo natìo, senza dover preservare l’integrità a ogni costo, potendo perdere quasi tutto senza morire. Da qui, forse, la nostra animosità, la foga, l’inquietudine e l’irrequietezza, che pur quando poco presenti come tratti della personalità sono comunque evidentemente sproporzionati se paragonati alla paziente e inesorabile robustezza della vita vegetale. Ma che c’entra, questo, con l’incontro? Voglio forse dire che il desiderio dell’altro, l’eros, viene da quella mancanza di completezza di cui narra il mito greco degli androgini? Non esattamente. Se pure potessimo fonderci a un qualunque altro, non ci avvicineremmo ad alcuna forma più pura, più piena, e men che meno finale. Ma, da un lato, il fatto di sentirci singolari ci condanna alla percezione della solitudine come condizione esistenziale (qualcosa che possiamo accettare o negare ma mai curare) e, dall’altro, il fatto di poterci muovere verso l’altro, di potergli andare incontro, comunica una bruciante sensazione d’impotenza: avendo la teorica possibilità di incontrare l’altro, pensiamo che il fallimento dell’unione sia figlio di una nostra incapacità. Nulla di tutto questo mi pare vero, né la solitudine dell’essere al mondo – se non come forma di nevrosi – né la sua impotenza. È piuttosto l’idea che abbiamo dell’incontro, di come è o dovrebbe essere, a renderlo sovente inappagante, frustrante e apparentemente impossibile.

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Quando si manifesta un desiderio occorre essere più chiari che si può, nei limiti che sono prescritti alla parola, riguardo i termini del proprio volere. Ma qui i termini sono l’amore e l’incontro, se sapessi essere chiara su quel che significano non sarei parte d’una stirpe mortale e confinerei col divino. Per cui diciamo che, al massimo, posso approssimare ciò che intendo con le parole che uso, tanto per evitare i fraintendimenti più macroscopici, ché evitarli in assoluto sappiamo essere impossibile.

Cos’è l’amore, qui? Carne che si fa spirito, corpi che sospirano parole approssimate alla misura del desiderio proprio e incerte del desiderio altrui. Per cui non è l’eterno che muore nell’amore, è l’effimero che si immortala nell’istante dell’amore. Mi riferisco, in questo senso, specialmente all’amore carnale. Non unicamente, però. Intendo con amore anche il legame struggente e radicale che sentiamo per la vita, per la terra, per l’anima del mondo, per ogni essere, per l’umanità: per l’alterità, insomma. La nostra esistenza si nutre di vite che accettiamo muoiano per noi ma, soprattutto, si nutre di vite che desideriamo vivano con noi, in noi. In questo impulso di vita cosciente della morte nasce quello che mi pare essere l’amore: il disperato ed estatico desiderio di sentirsi molteplici, più d’uno, addentro qualcosa che travalica, trapassa e, forse, trascende l’essere sé.

Cos’è l’incontro, qui? Più o meno lo stesso che l’amore. Per cui la domanda non è tanto “cosa sia l’incontro” ma quand’è che si può dire d’aver incontrato qualcuno.

Abbiamo mai incontrato qualcuno? Non dico qui, ora che ci è vietato uscire, sfiorare; ora che l’altro è la peste e stringersi è diventato imperdonabile, il contrassegno dell’irresponsabile, dico prima e in assoluto. Incontrare qualcuno presuppone due cose: che ognuno di quelli che s’incontrano sia qualcuno-di-per-sé e non la sterile somma di condizionamenti sociali; che tutti s’attenti la pronuncia di parole vere o che s’abbia il coraggio del silenzio, almeno. In questo senso, seppure l’incontro fisico e materico dei corpi resti la forma d’elezione dell’amore, l’incontro virtuale delle menti in configurazioni di parole scambiate a distanza non pregiudica una relazione che sia vera, compresente nel tempo seppur non abitante il medesimo spazio fisico.

Il perdono dell’alterità dell’altro passa per l’apertura di ogni nostra porta, per un gesto di fiducia e di abbandono che non prevede la perdita del sé ma la sua esplosione, la sua traduzione nello spazio dell’incontro, là dove si accetta di scontrarsi con i dubbi che la presenza altrui solleva, lo sconfinamento, l’incoscienza e l’accettazione della sorpresa imposta dalla relazione.

 

 

L’evoluzione del discorso

Io non credo che gli altri animali ci siano superiori, forse lo credo dei vegetali, ma questa è materia per altre manifestazioni. Detto questo, mi pare s’incontrino più autenticamente, della gran parte degli esseri umani, quelle bestie che si strusciano l’una all’altra o quelle che s’annusano il culo. Di noi, s’incontrano i castelli in aria, le sovrastrutture, non i corpi-menti ma le parole e le storie virali e inautentiche che ci compongono. Siamo esseri narrati, tramati e tremanti che faticano a tenere ben saldo l’ordito dell’identità, che non resta identica proprio per niente se si accetta l’evidenza di non sapere mai chi si è, se non ci si costringe a forza in una qualche definizione di personalità che finisce per creare la nostra personale realtà più che esperirla e indagarla. In questo, le costrizioni in cui la narrazione collettiva ha incarcerato i generi – il maschile, il femminile, che sia cisgender o trangender, il non-binario – hanno un peso così determinante e fatale che si può vivere la propria intera esistenza dentro una gabbia senza neppure percepire la presenza delle spesse grate che definiscono, isolano, conformano le nostre identità. Mi viene spesso in mente, in proposito, la celeberrima storiella raccontata da David Foster Wallace ai laureati del Kenyon College, per cui un vecchio pesce, incrociando due giovani pesci chiede loro Com’è l’acqua? E quelli restano sorpresi e in silenzio per un po’, quindi uno guarda l’altro e gli chiede Ma cosa diavolo è l’acqua? Per quanto banale sembri doverlo affermare, dice Wallace, spesso le verità più ovvie sono le più difficili da afferrare. Le costrizioni di genere sono come l’acqua per i pesci: nasciamo del tutto immersi nelle definizioni di cosa debba essere un uomo e cosa una donna, e tutto questo condiziona fin dall’infanzia la nostra evoluzione, le relazioni, il lavoro, la politica, il sesso: tutto. Vedere come questi condizionamenti hanno agito e agiscono richiede un’attenzione assoluta, ma del tipo di cui parla Simone Weil e che consiste non tanto o non solo nello sforzo di concentrazione ma nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto, permeabile all’oggetto. «Il pensiero – diceva – dev’essere vuoto, in attesa, non deve cercare alcunché, ma essere pronto ad accogliere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi». Per far questo, occorre osservare prima di tutto le parole che usiamo, quelle che con cui ci raccontiamo il mondo, con cui definiamo gli altri e noi stessi. Dubitare di tutto, almeno per qualche istante, senza che ciò si tramuti in paralisi e sempre unendo al dubbio il coraggio di attentare un pensiero, un gesto. Da qui si parte, anche se non basta. Resta vitale, comunque, concepire i pensieri – specie se comuni, se espressi in frasi fatte, in modi di dire consolidati e ripetuti – come virus autoreplicanti che sfuggono alla nostra coscienza e plasmano la nostra personale realtà in modo subdolo e decisivo, definendo la nostra identità, il nostro sé informazionale e, di conseguenza, anche quello materico, corporale, quello che si muove e plasma, che crea le cose e le relazioni, che dà forma al mondo.
Con questo non intendo dire che le parole siano il luogo della pura falsificazione, che siano condannate a mentire. Sono i nomi delle cose, però, non le cose. Idee. Perché siano autentiche devono essere fondate e radicate nella nostra propria carne, devono scaturire dai nostri tessuti connettivi e procedere dalle nostre esperienze di vita e di pensiero. Certo: è sempre qualcun altro a piantarcele dentro, ma è necessario che siano coltivate col nostro sangue, nutrite alla luce delle nostre ferite; è cruciale che scegliamo con cura quali meritino di incamminarsi per la via dell’intestino e quali per la via della gola. Parole che non siano sopravvissute al silenzio, al freddo e alle tempeste interiori nutrono personalità fittizie e fumose che fanno dei corpi marionette, persone che non esistono e che –perciò – non potranno mai incontrare niente e nessuno.

Ho cambiato idea molte volte, perché quelle che avevo non reggevano la prova dei fatti, della logica, delle emozioni o di quelle intuizioni irriducibili a una spiegazione. Non ho paura di mutilare la mia configurazione di base, so resistere al dolore dell’amputazione ed ho appreso la capacità della rigenerazione. Una vera amazzone, eh? Sapeste quanto tremo e quanto piango, invece. E non m’illudo di rimuovere ogni cosa chirurgicamente, asetticamente: e che il caos mi scampi dal riuscire in un simile scopo. Anzi. Si tratta piuttosto di recisioni volutamente barbare, eseguite col metallo rovente e una botta in testa come anestetico. Sono necessariamente dolorose e credo occorra manifestarne i segni, le cicatrici. Marchi della psiche che vanno dipinti in fondo agli occhi, alla fine della voce, sulla punta delle dita, in cima a tutti i peli del corpo e tra quelli del naso. Graffi che affrescano il palato e si stampano ai margini della parole, là dove comincia il silenzio. In genere, tendo a preferire interlocutori che mostrino i segni del processo di decostruzione-ricostruzione. E ammiro coloro che riescono a resistere alle soluzioni anestetiche a lungo termine che sembrano rendere superfluo ogni intervento. Solo mostrando i segni dell’operazione chi mi parla ha la possibilità che io lo prenda sul serio, che isoli le sue parole dalla massa indistinta di pour parler fatto di titoli e di meme, di riassunti così brevi da rasentare l’inconsistenza e da rendere, perciò, del tutto vano lo spreco di silenzio che comportano. Solo se vedo i segni della lotta in chi parla posso credere che quel che mi si dice sia stato consapevolmente salvato dalla configurazione di base, criticamente adottato perché convincente o vibrante. Non importa cosa mi si arrivi a comunicare purché i miei sensi non siano costretti a subire un’invasione di idee memetiche, irragionate e autoreplicanti. Nella mia esperienza, comunque, quasi chiunque sia stato in grado di sopravvivere a un tale affondo dentro di sé, non può evitare d’essere tenero, anche quando è severo e assertivo, anche quando è furibondo. La fatica dell’essere umani, se patita senza sconti, non lascia spazio al totale disprezzo dell’umano. Possiamo essere preda della rabbia e maledire una specie che pare debole, incapace di liberazione e alla perenne ricerca di tiranni, sempre a preferire la via facile dell’obbedienza, ma si può capire da quale terrore si generi un simile moto di sottomissione. Il dubbio è spaventoso. E il coraggio implica la disponibilità alla perdita.

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Ho mai incontrato qualcuno, allora? Direi di sì. Non accade spesso, però. Di recente, credevo d’aver incontrato una persona ma, alla fine, ho dovuto riconoscere d’essere sola. Ho incontrato una parte di me che m’ero tenuta nascosta e che si è proiettata in un corpo vuoto di sostanza e traboccante forme, tutte fin troppo simili ai miei desideri. Le persone si lasciano scrivere per sedurci, perché il nostro amore le vivifichi, le verifichi. Sono pochi gli individui abbastanza temerari da presentarsi nudi e dolenti all’incontro con l’amore, pronti a una lotta corpo a corpo che non preveda colpi sparati alle spalle, a distanza, che riconoscano il valore della tenerezza in cui è possibile sprofondare senza uccidere. Mi pare sempre più difficile un vero incontro ora che le persone sono marchi di fabbrica coerenti e sfavillanti, prodotti di storie solide senza buchi e senza dubbi e non più esseri opachi e malconci, vivi e imperfetti; ora che le idee e le parole raccontano personalità fisse e ripetitive, identità come motti pubblicitari; ora che tutti sono in vendita, in vetrina e di gratuito resta soltanto lo scherno. Non m’illudo di sfuggire alla condanna del mio tempo. Sono qui. Sono anch’io così. Voglio solo continuare a esserne consapevole per tenermi aperta una via di fuga, perché il subconscio continui a elaborare il suo piano di evasione dalla psicosi della nostra specie e mi consenta di tornare ad amare, ad incontrare persone che pienamente e realmente esistono e che siano capaci d’amore. Questa è acqua. Bisogna ripetersi. Costantemente.

Camminiamo nel mondo vestendo etichette, perché l’altro c’incontri sapendo a cosa va incontro: quella è una comunista, quello è un dominatore, quella è una poliamorosa, quell’altro è buddista. Pretendiamo che l’altro sappia esattamente cosa aspettarsi e riteniamo di sapere certamente cos’abbiamo da offrire. Ma l’etichetta offre solo pregiudizi a chi la legge e presunzione a chi la indossa. Per incontrare qualcuno occorre accogliere il mistero dell’incontro e darsi un ampio margine di incertezza. Come si fa ad abitare nello spazio e con lo spazio che c’è tra noi, come si può in-con-tra-re qualcuno se abbiamo già deciso ogni aspetto di chi siamo, di come siamo, di ciò che vogliamo? Quanto spazio resta per incontrare un altro se non ne abbiamo lasciato a sufficienza neanche per allargare il nostro sé? A questo punto della mia vita, forse qualcosa di ciò che non voglio, di quel non mi piace, m’è riuscita di metterla a fuoco. Se si tratta di conoscere le proprie negazioni, posso stilare una lista abbastanza consapevole, ma se si tratta delle proprie affermazioni e vocazioni, tutto si fa più incerto e posso solo approssimarle alla buona.
Accetterei di perdere larghi brani del mio sé, comunque, per un vero incontro, per l’eterno istante speso nel denso silenzio in ciò, con ciò che sta tra noi e ci incanta. Dissetare un’anima con l’acqua amara del loto che sfiorisce tra le mie cosce, costringerla a scordare tutto quanto credeva di sapere e bere anch’io dei fluidi che dissolvono ogni sapienza. Non dura che un istante. Lo so bene. E forse per questo l’idea di perdermi non m’atterrisce. So che ritornerò di nuovo in me, solo un po’ diversa e, si spera, migliore. Vorrei tornare a credere che basti stare accanto all’altro per sentire infinitamente la gioia, anche se non basterà, anche se finirà. La mente è del tutto consapevole dell’effimero che anima l’amore. Il mio corpo lo ignora, però, e continua a invocare una presenza dentro cui moltiplicarsi e illudersi d’un trapasso che non uccide e che, anzi, immortala. Incontrarsi davvero non equivale a smarrirsi eternamente ma ad esplorarsi, piuttosto. Ci si perde solo poi, se non ci si lascia andare in tempo, prima che i corpi smettano di sciogliersi e si rapprendano, impedendo ogni tenero affondo.

Potrò mai perdonare l’altro di essere altro da me? Vorrei saperlo benedire per questo, perché è scalando un altro corpo e lasciando che ci scali che possiamo invettarci, superarci.

Nella folle pretesa di compenetrarsi fino a confondere i limiti dei corpi e farne un’unica carne, abbiamo smarrito il senso dell’amore che, forse, sta nel navigare il rivolo d’umori che fonde le impalcature delle nostre identità e rifonda la terra che desideriamo abitare. Non si può piantare una tenda tra le mie labbra ma si può solcare il fiume che ne scorga, parole miste a umori che spingono l’opera viva della barca, la sprofondano e la sorreggono insieme.

 

 

Gli approdi del discorso

Un autentico approdo è solo preludio di ripartenze, altrimenti si chiama morte e quella definitiva è bene che arrivi una volta sola; delle morti che attestano mutazioni, al contrario, dovremmo essere grate e bramose, ché sono la prova piena e vibrante che finalmente morte non siamo.

La passione, in senso mistico ed erotico, è tradizionalmente legata a ciò che è dominato, a ciò che subisce e sopporta lo sconvolgimento d’amore. Per questo, si è a lungo creduto che fosse contigua al femminile. Personalmente, non credo sia così. Pur non negando che il gioco d’amore possa contemplare anche un gioco di potere nel senso della potestas più che della potentia, l’incontro fatidico dei corpi e delle menti mi pare possibile solo quando si accetta di perdere il controllo, si molla il fragile e sicuro ormeggio della prestazione – della praestātiō, di ciò che è dovuto e garantito – per navigare l’incerto, ciò che è possibile, indefinito. Inoltre, sebbene secoli di chiacchiere letterarie e mondane abbiano cristallizzato nell’uomo l’immagine di colui che prende la donna, a me è sempre sembrato ovvio il contrario.

Una volta, un amico di origini ivoriane mi raccontò il terrore generato dalla sua prima, precoce esperienza sessuale. Lui aveva otto anni, lei dodici o giù di lì. L’immagine del suo sesso che scompariva dentro di lei, che gli veniva preso, inghiottito, il terrore che non glielo avrebbe più restituito misto all’esperienza dell’estasi sessuale l’avevano sconvolto, annientato. Seppure, quindi, sia opinione comune che la donna sia la parte passiva dell’atto sessuale, quella destinata a esserei presa (e l’opinione sia così radicata da essersi – in molti casi – verificata, tradotta in pratica), io non vedo nulla nella donna che la renda ontologicamente passiva e, di conseguenza, che indichi nell’uomo la parte attiva. Vedo solo un eterno alternarsi e confondersi dei ruoli e delle potenze, ammesso che ad incontrarsi siano persone e non personaggi, umani e non prototipi. Per cui l’idea di passione come sopportazione del dolore, del ferimento, dell’assalto dal quale è possibile ricavare solo un piacere che confina col masochismo non credo renda giustizia alla verità dell’incontro carnale, come pure dell’incontro emotivo e politico con l’esistente. Mi pare, piuttosto, una cornice culturale, un racconto che, al pari di quello sull’amore romantico, spera di etichettare e così limitare l’incontro, nell’illusione che ciò determini la possibilità del pieno controllo di sé e dell’altro. Cazzate. Se penso all’amore carnale, pur non avendo esperienza dell’orgasmo maschile e sapendo quanto sia scientificamente dubbia l’idea della piccola morte sperimentata da alcune donne in seguito a piaceri molto intensi, io ho l’impressione di averla provata più volte. E anche quando l’intensità del piacere non raggiunge le vette più estreme, l’esperienza dell’orgasmo resta meravigliosamente struggente, annichilente in senso estatico, mistico e affatto penoso. I confini del corpo sfumano nella percezione della mente, non si ha più idea di dove termini il sé e cominci l’altro-da-sé (in senso assoluto e non tanto personificato nell’uno che ci sta addosso); si perde a tal punto cognizione di ciò che solitamente percepiamo come reale che anche le cose più ovvie, le forme, i colori, i contorni, si perdono in una girandola psichedelica che, per qualche secondo, offre un indicibile impressione di piena e traboccante assenza. Non è il vuoto che si sperimenta ma una qualche forma di smaterializzazione, di completa immersione.

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Forse, quel che ha consumato le relazioni e ha trasformato l’altro in un inferno è la pretesa di confluire definitamente e completamente in una persona sola, di trovare eterna soddisfazione in un unico incontro, limitando ogni altra passione capace di contendere un’attenzione che si pretende focalizzata ed esclusiva per poterla concepire totale, radicale. Eppure sono abbastanza persuasa che la passione si nutra delle altre passioni, esattamente come la vita animale si nutre d’altra vita, che sia un sentimento che necessita di allargarsi a esperienze molteplici per non sfiorire. Chiunque tralasci di coltivare le proprie vocazioni, quali che siano, scegliendo di concentrarsi su di un’unica esperienza d’incontro finisce per trasformare la passione in ossessione, e sebbene sappia che ogni grande passione necessiti e benefici di una certa fissazione, so anche che il confine tra una mania nutriente e una mania avvilente è sottile e assai pericoloso da percorrere. Non è l’altro a dover essere oggetto della nostra ossessione, è lo spazio di condivisione che non può prescindere dal consenso, dal rispetto, dalla concordanza di intenzioni e desideri. Altrimenti è pura violenza e tanto varrebbe fare a botte anziché accarezzarsi, affondarsi e risucchiarsi. Occorre affinare abilità funamboliche e temperare l’attenzione perché si riesca a percepire la qualità di ogni sconfinamento, saggiando l’emozione propria e dell’altro, il proprio e l’altrui benessere.

L’idea dell’amore romantico, che sarebbe meglio chiamare favolistico, poi, ha di fatto sterilizzato l’amore e coperto di vergogna e senso di colpa il bisogno di esplorare la pluralità del sentimento d’amore. E non parlo tanto di monogamia quanto più generalmente di monotonia, della pretesa di inquadrare il concetto di passione, relegandola ai rapporti sentimentali e privandola d’ogni altro sbocco, sia esso artistico, politico, intellettuale o fisico.

Ora, sono consapevole che al termine di un preteso manifesto, sarebbe necessario esplicitare i modi e gli oggetti della conquista. Ogni orazione, dopo aver evocato la natura e la qualità del desiderio, termina con una richiesta. Qual è la richiesta, quindi, e in che modo auspico di vederla esaudita? Quello che mi pare di volere in quanto parte di una vasta umanità e, quindi, ambendo a tradurre un bisogno personale che sfuma in esigenze collettive, è che ogni persona si sforzi di svestirsi il più possibile, di accettare di presentarsi nuda, scoperta e vulnerabile all’incontro, ché non esiste altro successo nella vita che quello di vivere un’esistenza autentica, condivisa, mutante, gaudente e dolente, intonata alle proprie pulsanti vocazioni e armonizzata dalle passioni, cosciente del sé, per-donata all’altro-da-sé. Alla fine, non mi pare esista ferita o assalto nella vita che m’abbia convinto che fosse più giusto e sensato armarmi, schermarmi. Da che devo proteggermi? Non è possibile alzare barriere che tengano fuori la sofferenza ma lascino passare la gioia. Un muro inibisce all’una e all’altra il passo. E io non intendo morire prima del tempo né vivere in stato comatoso, sentendo l’eco o, al massimo, il rimbombo della vita in lontananza. Esistono esperienze estatiche che è possibile abitare solo nell’incontro con l’altro. Altre che richiedono solitudine e concentrazione (sebbene, poi, è sempre altro quel che si tenta di afferrare nei momenti d’isolamento e introversione, ciò con cui si cerca d’intavolare un dialogo o per cui ci si dispone all’ascolto, sia esso la natura o il genio che s’invoca e che siamo soliti chiamare ispirazione). Certo, la gran parte dei piaceri è effimera e destinata a finire; ogni contatto con l’indicibile, con ciò che abita oltre sé non concede che fugaci visioni. Ma non si tratta di accontentarsi, infine, forse solo di abbracciarsi, di baciarsi, di respirarsi addosso fino a rendere visibile l’assenza di un vero confine tra i corpi, tutti fatalmente immersi in quella particolare, rarefatta forma d’acqua che chiamiamo aria.

ANNA COLUCCINO GUERRIERO

(Illustrazioni: Anna Malina)