ad Angela Falchi
Amore mio, avrei voluto darti un cuore meno feroce e una primavera a ogni abbraccio, ma le nascoste trappole del disincanto aprono la porta a venti inesplicabili.
Non perdonare gli agguati del lupo. Perdona il suo passo incerto sotto i colpi del destino. Solo così, in fondo al bosco, ritroverai la memoria incantevole del branco.
Ai confini del pensiero, il tuo corpo pieno di cose, minacciato d’amore.
Ridendo, amando, litigando, come per verificare assieme che non ci limitiamo a vivere.
Ascolto il tuo pensiero, la tua pelle. Il giorno diventa un lavoro di scintille. Di parola in parola, affronto il mio dolore e ne faccio un innesco di germogli.
Una vita in cui tutti gli occhi sono i tuoi. Una mia guerra in cui tutte le verità sono le tue. Una notte in cui tutti i seni del mondo sono fastosamente i tuoi.
Per quanto io sia poco accorto nel considerare l’assoluto possibile – a tal segno da bruciare anche la mia poesia migliore, come in una guerra di semi contro la sterilità delle parole –, riconosco nondimeno la presenza irriducibile del nostro amore in ogni passo malfermo dell’eternità.
Il cuore sorveglia la provocazione del sangue e pronuncia la morte del dubbio al cospetto del tuo sesso.
Parlami con gli occhi. Pensami con le mani. Accarezzami con le ferite del tuo orgoglio passato, presente e futuro.
Costruire una scrittura che sia l’indecenza accorata di una continuità. In mezzo alle parole, la coerenza rimane difficile, impervia, ma un tentativo di concordanza va nondimeno provato.
Occorre incastonare le parole dentro il flusso degli eventi per poter saltare da un concetto all’altro, da un significato all’altro, possedendo, almeno in parte, l’andamento reale del proprio pensiero.
L’indecenza, per l’appunto, sta nel mettersi a nudo continuamente con l’affermazione più o meno poetica – più o meno singolare – di un tale andamento.
La terra dei tuoi occhi è la mia isola, la culla di ogni mio naufragio. Cerco di governare il timone, ma la deriva del sangue è l’unica ragione del mio mare.
Questo famoso inciampo che chiamo desiderio – incarnazione di una vanità acerrima – divenire del mondo che dilaga nelle nostre vene senza potervi opporre alcun rimedio – è immediatamente una parte di me e di te confrontata col tutto, con la morte. È la voce rauca dei corpi nostri che si accarezzano di fronte alla sconfitta dell’universale e alla dismisuranza dell’affetto.
Ci abbandoniamo all’amore perché non sappiamo morire altrimenti. A ben vedere, ritrovandoci appena nel nostro tumulto, non abbiamo ancora conosciuto un’altra via d’uscita dal crampo sociale del dovere.
Quale cuore batte nel tuo sesso? Che cosa c’è al di sopra delle stelle? Quante parole dovrò ancora inanellare prima di poter comprendere il fine di ogni respiro?
La sera, ferma come un’idea viva, mi abbandona al sangue più coriaceo del nostro desiderio.
Accosto l’orecchio al tuo sesso
e scopro la voce più chiara dell’universo mondo.
Il tempo, la modestia, le
cose scompaiono.
T’infilo un dito nel pensiero più buio
e mi regalo una ragione per
tornare alla vita e alle stelle.
Sentire che mi sei casa e
che vengo a te come se
tornassi ogni volta alla mia nascita,
alle mie prime visioni.
Amarti come un varco e
ritrovare l’innocenza del cielo e delle
pietre,
giusto accanto al tuo fuoco.
Questo bisogno di tenerezza che germoglia fra le dita, fra le parole; quest’accenno d’eternità che colgo nei tuoi occhi, quando tratteniamo amorosamente coi nostri abbracci la trasformazione tremenda di tutte le cose.
Dove saremo fra mille anni? Come farò a leccare ancora il tuo sesso? Quale energia mi riporterà l’inflessione sarda della tua voce?
Fra le Pleiadi e il canto cosmico di fondo. Lungo il fiume gioioso di una materia ingenua. Nella conturbante rissa delle particelle. Attaccàti per sempre alla coda di tutte quelle comete che non torneranno mai più.
Laureana Cilento, 5-13 marzo 2021. Opera: Peter Max-Jakobsen.
la verità è nella pelle e di tutte le stelle con cui sa adornarsi
Mio caro, basta solo non farsi infinocchiare dai facili zodiaci.
ovviamente