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Anna Coluccino, Anna Malina, com-unicità, erezioni, incontro, la conquista della tenerezza, libertà, poetenza, Sade, unicità
Il seguente mio testo vuole essere una sorta di controcanto al Manifesto per un incontro d’amore di Anna Coluccino; non una risposta, non un’integrazione, bensì un flusso di riflessioni che vanno a mescolarsi alla medesima corrente di pensieri, emozioni, concettualizzazioni. A mio avviso, occorre infittire se mai le questioni, le domande, per darsi poi delle spazi comuni e pieni di senso.
Oggigiorno, credo che non possiamo sottrarci a un tale gioco, se vogliamo superare la semplice e insufficiente valorizzazione delle differenze, che lascia ormai le relazioni che trova.
A dire il vero, questo scritto è soltanto la prima parte di un mio tentativo di adiacenza al testo di Anna. Il suo Manifesto mi “risuona” moltissimo e innesca in me ulteriori riflessioni, che andranno a toccare, nei prossimi giorni, degli argomenti ostici, impervi, come ad esempio la violenza di genere o i limiti di un certo tipo di comunicazione.
Per intanto, comunque, ricominciamo da qui, da un oltre che non è mai altrove.
Buona lettura a tutti e a tutte voi.
Si vive per costruire incontri che alimentino la vita, la morte, e per trasformarli in affetto, in adiacenza più o meno stabile tra gli affetti, tra le affezioni.
L’incontro non nega lo scontro, ma lo reinventa su un piano di riduzione tendenziale della conflittualità. L’incontro è uno scontro che si vuole bene, è la relazione che si sottrae alle separazioni sociali; anzi, molto più precisamente, in àmbito umano, è la relazione che sottrae la distanza fisica dei corpi, la distanza naturale tra gli esseri differenziati, all’incidenza storica delle separazioni sociali.
Che cosa fa di me una presenza (un respiro, un desiderio) che costruisce un incontro determinato? Anzitutto, l’andare incontro all’Altro, il ridurre la distanza tra i nostri corpi, i nostri pensieri, nonché l’accettazione affettuosa o critica della distanza stessa che ci regala un’origine (un senso) all’incontro tra le singolarità in gioco.
Simone Weil sosteneva che occorra perdonare l’Altro per il fatto stesso di essere altro; solo così si creerebbe un territorio comune per l’affetto e per l’oltrepassamento della dialettica speranza/disperanza (magari senza il suo Cristo e le ipotesi sacrificali cristiane…). Detto questo, l’incontro, a mio avviso, è anche, e forse soprattutto, la trasformazione del movimento perdonante l’Altro in una comunanza affettuosa e critica tra unicità che accettano il fatto stesso che l’Altro le perdoni a sua volta. L’incontro è accogliere, ma anche farsi accogliere, farsi accoglienti, nonché restare affettuosi e critici dentro una mutua accoglienza.
Ciò non evita il conflitto, non scongiura gli scontri per la difesa della propria autonomia psico-fisica o del proprio affetto – scontri sempre necessari, sempre forieri di senso ulteriore –, ma fa sì che la volontà di comunanza prevalga criticamente sul desiderio di distanza.
Ho avuto paura di perderti. Ho commesso l’errore di sapermi il depositario (la guida orgogliosa e stupida) di un movimento che può essere solo comune, solo nostro. Non credendo nel tempo, nella durata, ho finito per espropriarti dei tuoi tempi. Errore gravissimo, virile, eroticamente indisponente.
In realtà, non esiste un tempo comune, se non quello della società che lavora contro di noi e che ci costringe ad avallare l’ordinamento storico dei nostri godimenti. Per quanto ci riguarda, dovremmo semmai occupare lo spazio per creare un territorio autonomo. Un territorio da attraversare criticamente, mano nella mano, spalla a spalla.
L’amore non è mai stato un affare di soldataglia, ma sempre il moto insurrezionale di guerrieri e guerriere che odiano la guerra, ma che non si sottraggono alle contraddizioni di una guerriglia poetica contro le proprie mancanze.
Venirti incontro non significa spostare le mie truppe all’interno dei tuoi spazi fisici e mentali, non significa introdurre di soppiatto un cavallo di Troia dentro i tuoi giorni, dentro la tua mente. Venirti incontro deve significare la morte di ogni significato superfluo; deve poterci permettere di riconoscere l’essenziale e di renderlo comune; soprattutto, deve sanare affettuosamente e simbolicamente la distanza sociale tra le nostre unicità, tra i nostri singolari bisogni di autonomia.
La comunanza autentica si realizza nella com-unicità, ossia in una consonanza tra singolarità autonome ed eroticamente intelligenti; non in una semplice convergenza funzionale, non in un semplice spargimento di belle idee, né tanto meno in un’acquiescenza fintamente affettiva (e realmente anaffettiva) verso l’istituzionalizzazione erotico-sociale degli affetti.
Rimbaud scriveva che l’amore va reinventato. Oggi però abbiamo bisogno di un sovrappiù d’impegno, perché va ripensato anche il reinventare, lo stesso desiderio di reinventare. D’altronde, ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare amore, preso da solo, isolato cioè dal divenire di un’intelligenza comune, non basta e non può più essere sufficiente, soprattutto oggi, soprattutto nell’epoca della liberalizzazione dei costumi sessuali.
Occorre ripensare la potenza dell’eros. Occorre inventare un nuovo genere per l’affetto, una nuova avventura affettuosa contro la stanchezza e la decadenza pornografica dell’amore. Non si tratta però di ricostruire un patetico decoro dei sentimenti o di ricostituire una mitica unità androginica, ma di riappropriarsi di quell’indecenza che ci farebbe tornare ad essere toccanti, affettuosi, al di qua della trita dialettica legge/trasgressione: un’indecenza da assumere (e da assolvere affettuosamente) facendone l’annientamento tendenziale di tutte le separazioni sociali che ormai ci vogliono subordinati pornograficamente alle nostre paure, al nostro narcisismo, al nostro potere d’acquisto socialmente determinato.
Continuo a farmi abbindolare da un bisogno di durata che non dovrebbe appartenermi. Noi non siamo un amore che deve durare forzosamente. Non siamo la necessità di reciproche servitù, né un armistizio stipulato con l’eternità. Siamo molto più semplicemente (e gioiosamente) tutti le possibili consonanze di una nostra comune presenza.
Se il desiderio può essere visto come un flusso di interrogazioni, come uno sciame di scintille alla ricerca del proprio incendio, l’incontro è meno una risposta e più il rilancio accorato di tutte le domande messe in comune con l’Altro. Le tappe intermedie – i godimenti, il mettere a fuoco il pensiero nelle situazioni particolari, la ricerca di una sicurezza – sono le risposte che portano la soddisfazione, ma non la sufficienza.
Nelle nostre relazioni col mondo, abbiamo un continuo bisogno di domande, di aperture. Solo così riusciamo a sentirci vivi e a non aderire alla morte contenuta nelle risposte, nella stabilità che imponiamo alle nostre risposte particolari.
In questo movimento contraddittorio del pensiero e della materia vivente, che solo culturalmente può essere considerato dialettico (la dialettica è già una costruzione, è già un concatenamento di risposte), e dove sovente si procede per balzi, per improvvise accelerazioni, l’Altro è l’origine vera della domanda, di ogni domanda, mentre la comunanza (la com-unicità) è il concatenamento, la continuità critica e affettuosa sia delle risposte, sia delle domande continuamente rilanciate e innovate insieme all’Altro.
Interrogarsi è il fondamento critico del vivere. È l’inizio del perdono, l’attraversamento, lo sconfinamento in un territorio che evoca e prepara l’unione.
Affréttati
Affréttati a trasmettere
La tua parte di meraviglioso di ribellione di benevolenza
In effetti sei in ritardo sulla vita
La vita inesprimibile
La sola in fin dei conti alla quale accetti di unirti
Quella che ti è rifiutata ogni giorno dagli esseri e dalle cose
Di cui ottieni a stento qui e là qualche scarno frammento
Al termine di combattimenti senza pietà
Fuor di essa tutto è sottomessa agonia gretta fine
(René Char)
Il concetto di libertà costituisce una risposta storica ai problemi sollevati dall’andare incontro all’Altro. È una forma spuria e incompleta di perdono. È un mantenimento parziale e regolamentato della colpa.
Socialmente, ciò che definiamo libertà, soprattutto nella sua variante borghese e protestante, è la rappresentazione storica del perdono, nonché la sua ripartizione collettiva normata. Porta in sé, come sedimentazione disciplinare, la soluzione dei conflitti, ma anche il conflitto tra le soluzioni.
In qualche modo, la libertà rimane la superficie di una incessante interrogazione, che trova la sua origine nel bisogno di territorialità e di autonomia in capo a ogni unicità vivente.
Mentre la libertà appartiene sempre all’affetto per un determinato ordinamento, l’unicità resta un ordine degli affetti autonomi. Là dove la libertà cerca di possedere e conservare uno spazio normato, l’unicità si ritaglia invece ogni volta un proprio territorio e sconfina continuamente.
Lo sconfinamento è una ironica interrogazione dello spazio, del territorio. Distoglie l’unicità che io sono (e a cui desidero appartenere) dall’identità che dovrei accettare socialmente e che mi farebbe dipendere da un’idea eteronoma della mia presenza.
Unicità e identità confliggono continuamente nella dimensione sociale. L’identità è una cristallizzazione unitaria di tutti i miei possibili intorno a una persona obliterata dal consesso sociale o antisociale (c’è del conforme anche nel radicalismo…). L’unicità, al contrario, è il flusso di tutte le sfaccettature che mi attraversano e che mi rendono un’interrogazione vivente e singolare. Quando mi credo strettamente un maschio caucasico, etero ed anarchico, sono in realtà continuamente varcato (e parassitizzato criticamente) da tutti i generi sessuali, da tutti i colori del vivente, da tutte le implicazioni della mia esistenza civile o animale, anche da quelle che vorrei avulse dalla mia unicità. Ci sono fascismi che operano in ogni mia erezione. Ci sono transessualità che si affermano in ogni mio pensiero autonomo. Ci sono e ci saranno fino alla fine, mio malgrado, particole di morte in ogni mia affermazione di vita, in ogni mia parola poetica.
Inutile nascondersi dietro un dito o dietro un cazzo eretto. Inutile testimoniare il falso al cospetto del divenire. Il movimento della materia si porta via ogni pretesa e ogni vanagloria. L’incontro autentico è uno stravolgimento delle dipendenze e delle assuefazioni, o non è.
Tra le pagine de’ La filosofia nel boudoir di Sade, c’è un’affermazione che m’induce a scatenare il pensiero al di là di ciò che mi hanno passato famiglia, società e idee rivoluzionarie virili. Il Divin Marchese mette in bocca al libertino Dolmancé una frase illuminante, vera più dell’aria viziata che respiro: «Il n’est point d’homme qui ne veuille être despote quand il bande [Non esiste uomo che non voglia esser despota quando gli si rizza]».
Ecco. Qui c’è un nodo di sangue essenziale. E c’è un’irriducibile differenza tra potere e potenza. La tumescenza sessuale (il discorso vale per il cazzo, ma anche per il clitoride) può essere testimone e legittimazione gaudente del potere, oppure, al contrario, senza mezzi termini, farsi disponibilità alla significanza ingovernabile di un concatenamento orizzontale tra potenze diversamente uniche.
L’idea di possesso è un’idea maschile. Un’idea colonizzatrice, pervertitrice, che ha generato l’orrore umano della proprietà privata (territorio degenerato in chiusura valorizzata, esclusiva). In realtà, non si possiede alcunché. Si possiede forse il denaro, le idee, una donna? No, affatto, se non nelle dinamiche di una dipendenza in cui anche i possessori sono posseduti (e soggiogati) dai valori che credono di detenere, di governare.
Il possesso è un pervertimento dell’appartenenza, un mascheramento delle proprie dipendenze. È la dinamica umana (maschile) che crede di irreggimentare le appartenenze e i concatenamenti di un universo che, in realtà, è sommamente irriducibile e ironicamente quantistico.
Io ti possiedo quando ti penetro? Possiedo forse la verità di quest’occupazione fisica e storica del tuo spazio, del tuo corpo?
No, io non ti possiedo. Molto più pateticamente, io assedio l’idea che ho dei nostri corpi nell’alveo di una valorizzazione frammentaria degli incontri che perde tutto e tutti.
Io credo che una chiave d’interpretazione del possesso risieda nel nostro sentirci o volerci isolati per garantirci contraddittoriamente contro la società, contro quella stessa “civiltà” che ci coarta e che accettiamo soltanto per non ricadere nel flusso dell’alienazione naturale.
Monadi insufficienti che accumulano protesi. Animali degeneri che pensano un definitivo superamento transumano per scongiurare i limiti dell’umanità. Contraddizioni su contraddizioni. Soluzioni che tagliano il nodo di Gordio delle insufficienze, ma anche le nostre teste pensanti, i nostri clitoridi, i nostri coglioni.
Il problema non è chiavarti. Il problema è credere che chiavarti possa com-prenderti tenendoti dentro la mia comprensione. Il possesso nasce dalla volontà di occupare le mie mancanze attraverso la coartazione della tua presenza dentro di esse, dentro il mio mondo insufficiente. Henri Michaux si sbagliava: l’amore non è un’occupazione dello spazio. L’amore, se mai, è un attraversamento di tutti gli spazi, di tutti i mondi che possiamo generare insieme (nelle nostre menti, nei nostri corpi) contro l’affermazione autoritaria di un mondo univoco, unitario, spettacolarmente e infinitamente consumabile.
Laureana Cilento, 8-10 marzo 2021 (to be continued). Visual: Anna Malina.