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Arthur Rimbaud, bisogna essere assolutamente moderni, Ernest Pignon-Ernest, Il vincibile orrore, la dignità della fuga?, poesia francese, Rimbaud, Una stagione all'inferno, Une saison en enfer
Qui di seguito potete leggere alcuni passi da “Il vincibile orrore”, la mia prefazione al volume: Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno (Eretica edizioni, 2021). Le fotografie sono parte del ciclo dedicato a Rimbaud nel 1978 dall’artista Ernest Pignon-Ernest. Per acquistare il libro: < sito di Eretica > < IBS > < Amazon >

Rimbaud nasce nel 1854 a Charleville in una famiglia borghese e provinciale. Il padre, un ufficiale in carriera, abbandona il focolare domestico quando il piccolo Arthur non ha neanche sei anni. Sarà allora la madre, Vitalie Cuif, a prendere in mano la situazione e a reggere la famiglia insieme alle proprietà fondiarie di Roche. Rimbaud è uno scolaro modello, esemplare, ma ben presto si fanno largo in lui un desiderio di conoscenza e una fame di esperienze che si riveleranno inestinguibili. Comincia a scrivere versi di ottima fattura (anche in latino) e a cercare dei modelli. Invia lettere memorabili a tutti gli adulti che crede all’altezza delle sue aspirazioni: Izambard, Demeny, il parnassiano Banville. All’ennesima richiesta d’attenzioni, finisce per stregare Paul Verlaine, ardennese come lui, tra i più promettenti poeti dell’epoca, che lo invita a Parigi e se ne incapriccia. Rimbaud giunge allora nella capitale e inizia a sfoggiare tutte le sue improntitudini da adolescente ribelle, riottoso. Scrive Le Bateau ivre – uno dei capolavori della poesia francese – per far colpo sui letterati parigini, che invece arrivano ben presto a detestarne i modi irriguardosi e anticonformisti. Verlaine abbandona la moglie e va con lui a Londra. Vita sregolata: alcool, droghe, sesso, poesia. Il rapporto però non tiene. Rimbaud resta ingovernabile. I suoi desideri oltrepassano qualsiasi “istituzionalizzazione” estetica dell’eccesso. A Bruxelles, il 10 luglio 1873, un Verlaine esasperato gli spara due colpi di rivoltella e si becca due anni di carcere. Rimbaud torna quindi a Roche dalla madre e, nell’estate dello stesso anno, termina Une saison en enfer. Fa poi stampare l’opera, in conto d’autore, da una casa editrice belga, l’Alliance typographique di Poot et Cie. Tuttavia, non regolando i pagamenti, ne riceve solo qualche copia, e il resto della tiratura, stoccato nei magazzini dell’editore, verrà ritrovato soltanto nel 1901 dal bibliofilo Léon Losseau, contraddicendo così ridicolmente la storia messa in giro dalla sorella Isabelle su una presunta distruzione di tutte le copie della Saison compiuta dall’autore stesso. (…)
Al di là di ogni lettura possibile dei testi e dei dati biografici, bisogna riconoscere a Rimbaud un’indubbia lucidità. La sua scrittura rimane confusa soltanto per chi fa della confusione un difetto della necessità. Il poeta va oltre e non si perde nell’individuazione (e nella stretta individualizzazione) di una scappatoia. Trova una lingua che lo mantiene in cammino; una lingua che scava tra le macerie dell’esperienza riportando in superficie la determinazione, la fiducia.
Dopo aver visto e sentito, Rimbaud accetta la severità del vissuto e accantona ironicamente l’insufficienza della poesia. La letteratura non è più una soluzione. La scrittura oltrepassa i limiti della mimesi e comincia a dire la trasformazione, a braccare il divenire. Il poeta si trasforma allora in agitatore poetico e fa proliferare i possibili, abbatte le separazioni, crea concatenamenti.
In Adieu, testo conclusivo della Saison, Rimbaud fa il punto della situazione e prende le distanze dal proprio idealismo: «Bisogna essere assolutamente moderni. Niente cantici: mantenere il passo conquistato. (…) È un bel vantaggio che io possa ridere dei vecchi amori bugiardi».
La realtà non è un gioco di specchi. L’amore non è una malattia. Siamo noi ad esser malati d’amore e a volerci rivedere in ogni rappresentazione. Il mondo non è mai stato una faccenda privata. Bisogna quindi uscire dalla fissità dell’Io e darsi in pasto a una trasformazione consapevole della necessità. Bisogna sì raccontare ciò che è stato, ma non solo per poter tornare a casa. Occorre farlo anche per tenere aperto l’orizzonte e giocare criticamente coi propri limiti. La poesia è lo scandalo della realtà; di una realtà che rimane sempre più reale dell’idea stessa che ce ne facciamo.
La modernità, per Rimbaud, è l’affronto d’ogni possibile: la capacità “tecnica”, stilistica, ma soprattutto avventurosa, di ricostruire un rigore, una tenerezza. Se la poesia non si rivela all’altezza dell’avventura, bisogna riscriverne le mappe senza subordinarsi alle riduzioni, alle semplificazioni indotte dalla nostra inclinazione all’unità o al soggettivismo narcisista. Gli elementi e il respiro della poesia sono voci non delimitabili dai nostri ritornelli familiari, sociali, autoconsolatori. Ostinarsi a leggerla – nei libri, negli occhi, sulle cortecce degli alberi – è affrontare sempre un’amicizia straniera, rischiosa, incantatoria.
In Rimbaud, il moderno è un esorcismo laico del fallimento, una via quasi obbligata per accettare gli obblighi della “vita adulta” dopo aver regolato i conti con la poesia.
La scrittura è stata un’iniziazione, un inoltrarsi nella foresta, un procedere a tentoni fra un dubbio e l’altro, fra un’illusione e l’altra. Se «la vera vita è assente», come si legge in Vierge folle, allora la posta in gioco è sfidare ogni assenza, ogni restringimento dello spazio, e costruire un mondo che sappia essere, per il nostro bisogno d’affetto, un insieme clamoroso di eventi e presenze.
Il problema del linguaggio, in ogni modo, non può più essere al centro della lotta per la soddisfazione. Le parole restano uno strumento essenziale, riescono pur sempre ad evocare la trasformazione, ma non possono e non devono limitarci a una variazione infinita del discorso poetico o morale rendendoci inerti rispetto alle relazioni materiali che operano in noi o contro di noi. Dove c’è poesia autentica, abbiamo una continua interrogazione sulla potenza e sul senso che imprimiamo al nostro vivere. Tutto il chiacchiericcio ulteriore, prendendo alla lettera le occupazioni storiche del senso, è solo un insieme di esercizi linguistici e formali che lascia inalterate le contraddizioni che trova.
Prima di rendersi degno della fuga, Rimbaud mette alla prova le parole, il destino, l’amore, ed è colui che spinge la poesia verso un cortocircuito micidiale. Dopo Une saison en enfer, che è opera definitivamente mistificatoria, in quanto poema sul compimento impossibile della poesia in ambito letterario, la negazione della poesia diventa la forma più vera dell’espressione poetica, e ciò si esplica sia attraverso l’azione, l’attivismo, la rivoluzione sociale, con cui si cerca di compiere il portato della negazione, sia alimentando un processo di continua estenuazione delle forme e delle strutture estetiche. (…)