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com-unicità, Kamil Vojnar, l'insopportabile questione delle parole, nomadismo del desiderio, quest’arrapamento per l’eternità, scrivazione
Non è la distanza in sé, o la distanza fisica, a uccidere l’affetto, bensì la differenza che diventa volontà di separazione, la distanza che si rivela incapacità a comunicare, a comunicarsi.
Eppure, bisogna sempre tener presente che la parola non basta, che la poesia non ci soccorre come vorremmo, e che neanche un’idea bella o “positiva” dell’amore risulta sufficiente. Se la comunicazione non si fa elemento propulsivo della com-unicità, contribuendo a che tutto diventi toccante e nostro – senza vincolarci normativamente al noi –, il detto non cicatrizza perfettamente l’esperienza e il ricordo di quest’ultima (o il rammarico, il rimpianto) continua a suppurare nei discorsi raziocinanti, nelle attese, nelle pretese che vorrebbero controllare o garantire l’affetto dentro un progetto vincolante.
Ho sperato che le mie parole potessero ricostruire senza posa il nostro rapporto, la nostra intesa, superando così ogni tipo di distanza, compresi i tuoi silenzi, e supplendo poeticamente all’assenza dell’Altro, alle mancanze di entrambi. Ho parlato a te – di me, di noi – cercando di non parlare anche per te. Ho erotizzato ogni parola nata dal nostro rapporto, perché ho creduto di poter rilegare i giorni soprattutto grazie alla potenza del nostro desiderio e al discorso che potevo trarne. Mi sbagliavo. Il desiderio erotico è un collante infido, inadeguato, soprattutto quando si tratta di gettare fondamenta. È come costruire sulla sabbia. Gli incastri del discorso erotico possono imporsi aprioristicamente sugli abbracci reali, sulle tenerezze vere, ma non riusciranno mai e poi mai a sostituirli o a surrogarne la potenza disarmante.
In realtà, l’amore costruisce sulla sabbia, sempre, ogni volta, ed è proprio questo il bello della cosa. Cosa ce ne faremmo dell’eternità, di orme che restassero immutabili su una battigia ormai asciutta e orfana del mare?
Cercare o rafforzare un’intesa grazie alla sola parola, è impresa vana: non si può mai dire l’Altro senza sottrargli qualcosa, senza levargli la parola che lo renderebbe dicente a sua volta, e non si può mai parlargli veramente (cioè usare la parola rendendosi simile a lui o scoprendosi unico come lui) senza fare del corpo e del desiderio i vettori principali del verbo, nonché gli uccisori gentili di ciò che rimane superfluo o inadeguato nel nostro dire.
Metto a fuoco il mondo e vivo meglio. O almeno voglio credere che sia così. Non scrivo più per dei lettori, a parte i pochissimi che coinvolgo nei miei entusiasmi, nelle mie contraddizioni. Non ha più senso credere in una gloria personale, in una valorizzazione culturale post mortem o idiozie del genere. Io scrivo per fare l’amore col mondo, per creare occasioni in cui spalanco me stesso al mondo e in cui smetto di aver paura della morte presente negli altri e in me. Il resto è solo un’ampia eventualità: terribile, meravigliosa e mortale come me, come noi.
[Testo scritto nel 2020. Illustrazioni: Kamil Voynar.]

Come sempre, dici scrivi cose belle e vere.
Ci provo, continuo a provarci, benché io senta il bisogno, in questo periodo, di una nuova convinzione. Non manca la determinazione, ma comincio un po’ ad avvitarmi intorno ai limiti del mio sapere e ai ritornelli del mio discorso. Ho bisogno di nuove sfide e di far sì che il mio sapere resti e si evolva anzitutto come un saper vivere. (Grazie per la fiducia e per il lusinghiero commento).