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Giovedì 16 dicembre (h 18:00), presso il Centro Sociale Brancaleone di Roma (via Levanna n. 11), s’inaugura la mostra fotografica Mappa delle deviazioni di Chiara Sestili.

La mostra propone due percorsi in tre sale con scatti di strutture e architetture urbane e immagini delle sculture monumentali realizzate nella ex Jugoslavia socialista.
Gli scatti sono luoghi della personale mappa delle deviazioni di Chiara Sestili disposti in un percorso ricostruito a ritroso sulle coordinate principali di diversi viaggi esplorativi.
Che si tratti di un viaggio alla ricerca di esperienze storico-artistiche, come nel caso dell’arte socialista jugoslava, o di una passeggiata casuale in città, il risultato è un insieme di scarti prospettici che si soffermano su imprevisti e “ingombri” di linee, forme e simmetrie.
Prospettive, curve, interventi grafici e opere d’arte fortuite convivono nella prima sala in una raccolta di immagini fanta-scientifiche, visionarie e bizzarre, distorsioni e ritrovamenti culturali istintivi: il movimento casuale di uno sguardo che traduce elementi minuti del paesaggio urbano in oggetti narrativi del romanzo Stella Rossa di Alexander Bogdanov o in allusioni al Monumento alla Terza Internazionale di Vladimir Tatlin, oppure ancora nel gioco di specchi e ombre dei labirinti di Escher. Questo primo impatto introduce alla deviazione ottica del senso e dell’estetica dalla funzione cui siamo abituati in favore dell’immaginario e dell’incoerenza geometrica del disegno appena affiorato e ritrovato. Il modo di guardare alle forme, allo spazio, alla dinamica area, alle masse corporee, alle traiettorie verso il basso, la terra, o l’alto, il cielo, nonché agli angoli impensati, ai pieni e ai vuoti, che istruisce e accompagna l’arte dei memoriali dell’ex Jugoslavia che ha riformulato la stessa inquadratura fotografica di ritorno nello spazio urbano. Il taglio degli scatti ai memoriali è sempre personale, raramente d’insieme, e ne cattura le singole prospettive in tutta la loro potenza evocativa, scorpora i segmenti e i dettagli offrendo loro una autonoma dignità estetica, una licenza poetica che comunque ne rispetta il significato storico politico accompagnando le fotografie con testi di storia e critica d’arte.

[ Di seguito, alcuni passi da La città, uno dei testi di Chiara Sestili che accompagnano la mostra. ]

(…) Occorre essere dei solitari conviviali, nella solitudine scelta c’è una singolare spinta verso la riscoperta dell’incontro casuale senza schermo, senza preparazione a monte. Porsi in attesa, da sospensione cronologica diventa stato mentale, una sostanza del possibile, un’arte del defilarsi dal bisogno e dal dovere consegnandosi al gioco come costruzione e all’irruenza della curiosità. L’attesa come spazio aperto all’insinuazione della domanda, riconoscendo anche il sentimento di perdita e sottrazione che comporta la rinuncia al bisogno di controllo, previsione e definizione per lasciarci fluire in un momento che ci ospita manifestandosi. Ritrovare la disposizione d’animo consente il cambiamento, la fuoriuscita dal tracciato, la dislocazione disimpegnata dell’attenzione, l’abbandono di priorità e paradigmi che ci rendono essere funzionali sempre meno umani. abbandonarsi al vagare fin quando anche le necessità anche la fame e la sete si avvicinino il più possibile alla misura del fluire. Attendere l’apertura di un angolo verso una strada, una piazza, un incontro è una emozione che non precede l’emozione del compimento del movimento, ma ha un timbro e un peso pari. Coltivare l’apertura alla deviazione e la visione caleidoscopica, fuggendo dalla pretesa del controllo panottico e agli schemi mentali palindromi. In attesa di potermene ripartire verso i miei luoghi preferiti che si trovano a “vediamo a naso”, mi ritrovo ogni giorno a notare dettagli e righe che non sapevo ancora mi piacessero. (…)

Ogni volta che la pietra di inciampo della realtà -che è reale ma non vera- interrompe questo flusso, mi sovviene senza possibilità di sfuggire alla domanda, che è impossibile non scegliere, ogni momento. L’intrusione della realtà nel mio vero mi sollecita alla rinuncia, ad accoglierla e a dare al suo gesto l’aria attraversabile in cui scoprire e accogliere nuovi possibili esclusi dai muri di cinta delle compatibilità e delle astrazioni di un reale che non tollera l’immaginazione e la deviazione di percorso dal dovere e dal produrre. Una passeggiata è un esercizio che permette di ritrovare luoghi di riformulazione in cui ammainare bandiere e superare i confini di stati mentali umani e mentali stipulati con programmazione di obsolescenza per sorreggere sin nell’intimo di ognuno, equilibri e ritmi economici insostenibili. E rivedere gli strati di polvere non ancora rimossi nell’armonia del piccolo e dell’apparente banalità che ancora spuntano impertinenti sopra questo inferno odierno.

La felicità, egli diceva,
è destrezza di mente e di mani.
Tutte le anime maldestre
ebbero sempre fama di infelici.
Non fa nulla se i gesti
tortuosi e bugiardi
arrecano molti tormenti.
Fra tempeste e burrasche,
nel freddo della via quotidiana
nelle perdite gravi
e quando si è afflitti
mostrarsi semplici e sorridenti
è l’arte suprema del mondo.
(da Sergej Esenin, L’uomo nero, 1925)

[ Chi visiterà la mostra potrà imbattersi anche in un mio testo, che si può leggere qui di seguito, oppure scaricando il PDF impaginato da Chiara. ]

Noi umani tocchiamo le pietre del pensiero e non sentiamo più il calore della costruzione, dell’opera, né la certezza di un risarcimento affettivo del nostro movimento di mortali.
I margini del mondo si sono sfrangiati e allargati a dismisura, ma noi abbiamo perso il godimento del territorio, la tenacia del lupo e della lupa, preferendo la proprietà privata di una manciata di luoghi comuni.
Abbiamo smarrito l’essenziale, l’autonomia di un affetto compiuto verso l’esistente.
L’essenziale cui mi riferisco non è tanto il lottare contro qualcosa (contro la morte, contro l’ignoto, contro i limiti dell’umano), quanto, se mai, il gioire con qualcuno in un comune accordo o disaccordo – e cos’è la gioia se non soprattutto un accordo poetico col proprio mondo, con la propria rete di relazioni lungo un determinato territorio?
Ciò che ignoriamo della vita non deve trasformare il nostro pensiero in una pietra al collo del possibile. Occorre comprendere che non è importante fissare un senso della vita, ma aderire, mano nella mano, spalla a spalla, a un senso del divenire, a un senso del qui, sapendosi in una corrente, in un affiorare continuo e peculiare di una comune presenza. Prendere la vita come diviene. Non incaponirsi a spiegarla, ma gioire a dispiegarla. Il che implica anche una leggera e ironica correzione di rotta rispetto alla bonaccia abitudinaria del pensiero: il saper vivere è sostanzialmente un saper divenire, un fare surf sulla stessa idea di mondo che andiamo adottando e trasformando.
Una tale disposizione tende a incrinare la concezione storica del tempo cronologico lineare. Gli affioramenti dell’unicità rompono infatti con la fissità dell’essere e inducono il vivente a rilegare adeguatamente i picchi di senso del suo divenire facendone un’opera, un territorio, un profilo, ma senza procrastinarne il godimento, senz’agganciare questo godimento di sé e del proprio mondo a una qualche garanzia di durata, a una “speranza di vita”.
È come uno stato di grazia, un’improvvisa brillantezza dell’esistente – l’avvento di una configurazione decisiva della materia. Anzi, per meglio dire, si dovrebbe parlare di un divenire sempre possibile della grazia, di una rilegatura consapevole e singolare di tutte quelle situazioni attraverso le quali il vivente costruisce e “aggiusta” il senso del proprio divenire.
L’unica causa che possiamo far nostra, senza ridurre la potenza del vivente, è scongiurare la banalità dell’inoperoso, dell’inerzia. Scoprire la nostra eccentricità materiale, mortale, e farne un’intelligenza del corpo, una ricerca affettuosa di senso. Imparare allora ad esaltare i momenti salienti della nostra unicità in modo da sentirci congiunti, per il suo tramite, all’evidenza imperiosa delle altre singolarità e al loro amore verso un comune movimento.
La scrittrice brasiliana Clarice Lispector, nel suo Acqua viva, ne scrive in modo esemplare: «La luminosità sorrideva nell’aria: esattamente questo. Era un sospiro del mondo. Non lo so spiegare, così come non si può raccontare l’aurora a un cieco. È indicibile ciò che mi è accaduto in forma di sentire: ho bisogno in fretta della tua empatia. Senti con me. (…) Lo stato di grazia di cui parlo non serve a niente. È come se capitasse soltanto perché si sappia che si esiste davvero e che esiste il mondo. In questo stato, oltre alla tranquilla felicità che si irradia dalle persone e dalle cose, c’è una lucidità che definisco leggera solo perché nella grazia tutto è così leggero. È la lucidità di chi non ha più bisogno di indovinare: senza sforzo, sa. Nient’altro che questo: sa. (…) Il corpo si trasforma in un dono. E si sente che è un dono perché si sta sperimentando, alla fonte diretta, il regalo all’improvviso indubitabile di esistere miracolosamente e materialmente».
Con ogni evidenza, non si tratta qui di un’estasi mistico-religiosa, né tanto meno di un rapimento ebete della mente. Non si è proiettati infatti verso un altrove, un dio, ma si torna a sé (e si mira alla compiutezza di sé) dopo aver circumnavigato il possibile intorno a se stessi, dopo aver conosciuto e sormontato le distanze tra le potenze del nostro mondo, dopo aver instaurato infine un’amicizia folgorante, quantunque precaria e sempre da ricostruire, da riconoscere, tra le pietre, tra le cose peculiari del nostro mondo.
La grazia è più un modo del sentire e meno uno stato della mente; non è la beatitudine dei santi, né si pone come finalità la beatitudo di Spinoza. Non si tratta neanche di cercare la perfezione, ma di trovare, almeno a sprazzi, una propria compiutezza nel divenire di tutte le cose, rilegando i nostri picchi di senso in un andamento senza tempo e senza paura.
Se consideriamo come atto sovrano il nostro allungare le mani per accarezzare il mondo, evitando che le carezze diventino un meccanismo di subordinazione, non possiamo dunque che essere d’accordo con Bataille quando afferma che «essere sovranamente (….) significa non poter aspettare». (Carmine Mangone)

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