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Simone Weil – uno di quei rari spiriti che inseguono senza posa la soluzione definitivamente umana ai problemi posti dalla mortalità – attraversa la frontiera spagnola a Port-Bou l’8 agosto 1936, a circa tre settimane dal colpo di stato militare contro il Frente Popular delle sinistre, andato al potere con le elezioni del febbraio precedente1.

Il 17 luglio, una giunta nazionalista guidata da alcuni generali (tra cui Emilio Mola e Francisco Franco) si era infatti sollevata contro il legittimo governo democratico della Seconda Repubblica, incontrando però fin da subito, in diverse regioni, una decisa resistenza armata da parte delle masse proletarie, specialmente in Catalogna, dov’erano state determinanti, nei primi giorni del conflitto, la forza numerica e la radicalità del sindacato anarchico CNT (Confederación Nacional del Trabajo).

L’opposizione popolare ai golpisti porterà, da un lato, all’innesco di alcuni processi rivoluzionari e autogestionari di matrice comunista libertaria, soprattutto in Catalogna e Aragona, e, dall’altro, a una sanguinosa guerra civile che si protrarrà per ben tre anni, fino alla primavera del 1939.

Ufficiosamente, Simone Weil arriva in Spagna come giornalista. In realtà, ha tutta l’intenzione di partecipare al vivo delle lotte.

In un primo momento contatta i vertici del POUM, un piccolo partito marxista antistalinista, col piano d’infiltrarsi nella zona franchista per indagare sulle sorti di Joaquín Maurín, segretario del partito, di cui non si hanno più notizie dal momento del golpe. Il suo aiuto viene però decisamente rifiutato. Finisce allora per aggregarsi, alcuni giorni dopo, a un gruppo di volontari internazionali che combatte fra le fila della colonna miliziana diretta da Buenaventura Durruti, figura leggendaria dell’anarchismo iberico2.

Simone ha ventisette anni e va urtando da tempo contro gli spigoli delle contraddizioni sociali. Appartenente a un’area rivoluzionaria non allineata ai diktat sovietici, conserva una lucidità esemplare, sempre propositiva, in un’inquietudine critica che le fa rifiutare, non senza un tenero puntiglio, ogni facile adeguamento alle ideologie progressiste dell’epoca.

Appena due anni prima, mettendo in gioco anche le proprie aporie esistenziali e politiche, proprio lei che si porterà in giro per un’intera vita un oltranzismo del cuore, aveva scritto: «(…) sotto pena di sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, si deve rimettere tutto in questione. (…) Soltanto dei fanatici possono attribuire valore alla propria esistenza unicamente nella misura in cui essa serva una causa collettiva; reagire contro la subordinazione dell’individuo alla collettività implica che si cominci col rifiuto di subordinare il proprio destino al corso della storia. Per decidersi a un simile sforzo di analisi critica basta aver compreso che esso permetterebbe, a chi vi s’impegnasse, di sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva rinnovando, per proprio conto, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’universo»3.

Il malcelato idealismo di quell’indefinito patto originario tra spirito e universo cui si riferisce Simone Weil, non offusca la nettezza delle intenzioni e la convinzione a prova di vertigine che la animavano.

Rimane tuttavia sullo sfondo il problema dell’efficacia, della soluzione. Se l’umano si vuole come cercatore di senso per sé e per l’Altro, la sua ricerca deve sciogliere il nodo essenziale di una collocazione armonica degli altri all’interno del proprio mondo di pensieri, azioni, desideri. In un tale movimento d’apertura, il singolo si proverà ad accordare le necessità sociali al senso della propria ricerca trasformando criticamente la materia delle relazioni che intrattiene col mondo e facendo in modo che la ricerca stessa non si trasformi in una necessità avvilente.

Il fine della ricerca è anche la sua origine: nascere ad ogni esperienza, rinascere ad ogni consonanza con l’esistente, e vivere un continuo risveglio al cospetto della tremenda e immane amicizia dell’universo.

Lo spirito, con buona pace di Hegel, è il senso che diamo alla potenza degli elementi che fa il nido nella nostra presenza, nella nostra carne più critica. L’oggetto e il modo della ricerca sono la costruzione del patto, il riconoscimento fertile dell’Altro. Il che non implica un patteggiamento con i guasti della cosiddetta umanità, bensì un ritrovarsi intorno alle sofferenze da combattere e ai fuochi comuni che le tengono a bada.

Si tenta ciò che si conosce, e si cerca di conoscere ciò da cui veniamo tentati senza colpa, per non limitare i tentativi e le conoscenze ulteriori. In tutto questo, sarebbe un guaio non accettare le possibilità che ci offrono gli spazi aperti in cui andiamo riconoscendo anche l’affetto annidato nelle mancanze degli altri.

Nella costruzione della Storia, che è sempre una costruzione a posteriori, una scelta di narrazioni parziali, la ragione arriva sempre in ritardo, e spesso arrancando, producendo giustificazioni per il suo esser caduta in mora rispetto al passato o per via di tutti i mancati appuntamenti con taluni eventi.

Eppure, di tanto in tanto, affiora un movimento dei viventi che pratica e riesce a verificare, nel qui e ora, anche tutte le nostre risposte, e che, nella sua emergenza storica, trasforma le domande della critica in un desiderio critico di comunanza.

L’approssimarsi critico e affettuoso all’Altro riceve così una folgorante autenticazione. L’orizzonte noto esplode e concede nuove albe al sole. I lacci della ragione si spezzano, ci abbandonano all’impossibile, e i viventi tutti si vestono di desiderio con noi. Allora il cuore della terra salta un battito, accoglie tutte le intemperanze del sangue, e la rivoluzione reinventa le orbite e le eccentricità dell’esistente. Certo, non sarà mai la soluzione definitiva. Il definitivo non esiste. Ma l’apertura improvvisa e provvida scioglie le paure dell’umano nell’acido dell’entusiasmo e ci lancia ogni volta al di là della più mediocre umanità.

Le prime impressioni di Simone Weil sulla Spagna rivoluzionaria dell’estate 1936 sanno essere, al tempo stesso, entusiastiche e prudenti: «Si farebbe fatica a credere che Barcellona sia la capitale di una regione in piena guerra civile. Chi ha conosciuto la città in tempo di pace, e scenda alla stazione ferroviaria, non ha la sensazione di un cambiamento. Le formalità vengono sbrigate a Port-Bou; si esce quindi dalla stazione di Barcellona come un turista qualsiasi e si passeggia beatamente per le sue strade. I caffè sono aperti, benché meno frequentati del solito; e così i negozi. Il denaro gioca il suo ruolo di sempre. Se non ci fossero così pochi poliziotti e tanti ragazzi col fucile, non si noterebbe niente. Occorre tempo per rendersi conto che qui si è nel bel mezzo di una Rivoluzione e che si sta vivendo uno di quei periodi storici di cui si è letto nei libri e sul quale si fantastica fin da piccoli, il 1792, il 1871, il 1917. Possano gli effetti, stavolta, essere più felici. Nulla è cambiato, in realtà, salvo un piccolo dettaglio: il potere è nelle mani del popolo. Gli uomini in tuta da lavoro hanno il comando. È uno di quei periodi straordinari, finora mai durati molto, in cui coloro che hanno sempre obbedito prendono in mano le redini di tutto. Certo, quando si mettono dei fucili carichi in mano a ragazzi diciassettenni tra una popolazione disarmata, ciò non avviene senza inconvenienti…»4.

L’idea e il sogno della rivoluzione sociale sono stati un luogo comune immane, onnipervasivo, vincolante, che ha irretito i desideri di intere generazioni e prodotto una nuova forma di necessità comunitaria.

Il desiderio rivoluzionario ha creato una nuova seduzione, un nuovo modo di porre le operazioni di concatenamento degli elementi reali e virtuali del mondo, ma anche una nuova esibizione vincolante. Ha costruito infatti una determinata pedagogia del cuore e del braccio legandola alla necessità di trarre frutto dalle contraddizioni sociali. Al tempo stesso, ha amplificato le contraddizioni senza risolverle – non riuscendo certo a estinguerle una volta per tutte – contribuendo a diffonderle, per converso, in una volontà alienante d’identificazione e di proiezione vitalistica che ha sviluppato, a ogni pretesa ideale, una malferma e conformistica transizione delle potenze in gioco.

L’insurrezione è un conformismo della stazione eretta, un’emergenza delle tensioni che spinge gli umani a salvarsi dalla necessità, dal quid di umanità che si contrae nel necessario, nel sociale, pur restando avvertiti che niente e nessuno potrà mai venir risparmiato dal divenire.

Nondimeno, l’unicità del vivere consiste propriamente nel costruire un eroismo affettuoso verso l’ineluttabile e nel tendere una mano ai compagni e alle compagne dell’ignoto, dell’azzardo, del divenire stesso.

L’attesa di una trasformazione radicale dell’esistente è un tradimento del divenire, se cerca di fissare la trasformazione del mondo in una convergenza ideale (o peggio: sacrificale) dei suoi elementi.

Non si taglia l’albero per farne una croce. Non si combatte l’oppressione con le armi dialettiche di una verità ideale, utopistica, ma si crea nell’immediato un luogo aperto, carnale, dove il comune diventi accoglimento, amore per la morte elusa e dono affettuoso verso le contraddizioni dell’Altro. In altre parole, occorre farsi ponte tra il seme della curiosità e l’albero della conoscenza, tra la pagina bianca e la lettera d’amore, tra l’astigmatismo del pensiero e la visione telescopica del desiderio, ma senza la falsa oggettività della Legge di chi governa i sogni attraverso la merce della speranza.

La ricerca di una soluzione, che portò Simone Weil in Spagna e poi nel territorio di un cristianesimo senza chiese e senza battesimi, era il tentativo di trovare un accordo con la negazione, una rottura che non si portasse dietro il limite di una negazione puerile, remissiva. Interrogando febbrilmente una soluzione comune e irrimediabile, fuori dal tempo storico del potere, ella si volle compiutamente (e umilmente) al di qua del proprio privilegio di pensiero.

Il mondo non è un’astrazione, una costruzione dei filosofi, bensì una determinata disposizione delle forze e degli elementi reali che occupano lo spazio-tempo. Per attuare uno sviluppo del genere Homo, e una trasformazione dell’esistente, occorre quindi partire dal mondo delle cose e agire conseguentemente utilizzando dei mezzi reali; intervenire cioè nel mondo delle cose per cambiarlo, per poter trasformare l’assetto delle comunità umane in modo da risolvere le contraddizioni e le discrepanze più dolorose.

Il pensiero dell’uomo non può limitarsi alla pura sensazione, alla mera intuizione del mondo sensibile, ma deve confluire in un’analisi critica degli assetti materiali esistenti, così da partecipare attivamente al loro cambiamento legandosi alle attività pratiche dei gruppi umani. Il pensiero deve partecipare alla produzione e alla trasformazione della vita materiale, la quale, in sé, è un duplice rapporto: naturale da un lato e sociale – ossia prodotto storico delle attività umane – dall’altro. Il pensiero stesso è un prodotto sociale. Lo spirito, la coscienza, l’immaginazione: emergono infatti da condizioni materiali determinate e si manifestano storicamente attraverso il linguaggio.

Con il consolidamento della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, il pensiero si rende autonomo e comincia a creare elementi e strutture che possono non avere alcuna rispondenza “fisica” nella realtà empirica. Nasce la coscienza, che si emancipa dalla realtà e produce dispositivi ideali che galleggiano sopra le teste degli uomini.

Lo sviluppo della coscienza, in quanto riflesso dell’attività sociale, finisce così per individualizzare definitivamente ogni appartenente al genere Homo, lo scardina dal bacino comune dei viventi e lo separa socialmente da ogni altro membro della specie.

Un tale movimento di separazione si manifesta anzitutto come separazione tra interesse individuale e interesse collettivo, nonché con la funzionale subordinazione storica del primo al secondo. La divisione del lavoro, infatti, vincola ogni singolo individuo allo svolgimento più o meno forzoso di attività specifiche, esclusive, gerarchizzate, alle quali egli non può sottrarsi, se non mettendo in discussione e trasformando concretamente l’assetto sociale. Non avendo più la possibilità di gestire autonomamente le proprie attività produttive, l’uomo cede una parte della propria potenza alla società e si fa spossessare storicamente dai meccanismi di valorizzazione del lavoro. In quest’ottica, i suoi soddisfacimenti personali vengono sganciati dal bacino naturale d’origine e connessi sempre più strettamente alla divisione del lavoro e alla riproduzione dei valori sociali. Al tempo stesso, i livelli di alienazione, originati dallo sfruttamento e dalla gerarchizzazione delle attività umane, sviluppano contraddizioni e scatenano conflitti in ogni àmbito comunitario.

Simone Weil, con la sua centuria aggregata alla Columna Durruti, arriva a Pina de Ebro, un piccolo borgo rurale aragonese, il 15 agosto 1936. Nel suo diario ci lascia un sintetico resoconto dell’assemblea popolare che si tiene su iniziativa dei miliziani anarchici: «Conversazione con i contadini di Pina: Sono d’accordo per coltivare tutto insieme? Prima risposta (da più parti): faremo quello che dice il comitato. Un vecchio: sì – a condizione che gli venga dato tutto quel che occorre – e che non debba più preoccuparsi, come fa oggi, per pagare carpentiere, medico ecc. Un altro: bisogna vedere se la cosa funziona… È meglio coltivare insieme o separati? – Meglio insieme. (Non molto convinti.) Come vivevano prima? – Lavoro giorno e notte, e pessimo cibo. La maggior parte non sa leggere. I bambini vanno a servizio. Una piccola di quattordici anni, son già due anni che lavora da lavandaia. (Ridono, mentre raccontano tutto questo.) Guadagnano 20 pesetas al mese (ragazza di vent’anni), 17, 16… Vanno scalzi. I ricchi proprietari di Saragozza. Il parroco – Non avendo niente per le elemosine, regalavano polli al prete. – Era benvoluto? – Sì, da molti. – Perché? Nessuna risposta chiara. Quelli con cui abbiamo parlato non erano mai andati a messa. (Gente di età diversa…) C’era molto odio contro i ricchi? – Sì, ma ancor più tra poveri. Ciò non sarà uno svantaggio per il lavoro in comune? – No, perché non ci sarà più disuguaglianza. Lavoreranno tutti in ugual modo? – Chi non lavorerà abbastanza, verrà forzato a farlo. Mangerà soltanto chi lavora. La vita in città è migliore di quella dei campi? – Due volte meglio. Meno lavoro. Abiti migliori, divertimenti, ecc. Gli operai della città sono al corrente delle cose… Uno dei loro è andato a lavorare in città ed è tornato dopo tre mesi con degli abiti nuovi. Invidiano gli abitanti della città? – Non se ne curano… Servizio militare: un anno. Con un unico pensiero: tornare a casa. Perché? – Cibo cattivo. Stenti. Disciplina. Bòtte (chi si rivolta, viene fucilato). Schiaffi, colpi col calcio del fucile, ecc. I ricchi lo fanno in ben altre condizioni. Andrebbe abolito? – Sì, sarebbe una gran cosa. Quelli che erano a favore del parroco non hanno cambiato opinione, ma tacciono. Regime dei contadini: pagano una rendita al proprietario. In molti sono stati cacciati perché non più in grado di pagare la rendita. Devono impiegarsi come braccianti a due pesetas al giorno. Sentimento d’inferiorità assai vivo»5.

Certo, bisogna vedere se la cosa funziona – «il faut voir comment ça marchera» –, dicono i contadini aragonesi ai miliziani della Durruti, stando a quanto riportato da Simone Weil. Dubbio legittimo, soprattutto dal punto di vista di una povertà che ha paura di diventare ancor più povera, e che non può essere eluso con una semplice alzata di spalle.

In Spagna, negli anni 1936-‘37, sul fronte rivoluzionario anarchico, i numeri furono imponenti, vista soprattutto la condizione di guerra in cui si svilupparono certe esperienze. Nella zona rimasta sotto il controllo repubblicano ci furono infatti almeno 750.000 contadini e un milione di operai coinvolti nelle esperienze autogestionarie impiantate a partire dal luglio 1936, tra cui: 450 collettività agricole nella sola Aragona, circa 200 in Andalusia, 503 collettività agrarie e industriali nel Levante e più di mezzo milione di operai collettivisti in Catalogna, all’epoca la regione iberica più industrializzata6.

Beninteso, non erano tutte rose e fiori. È impossibile pretendere di mutare radicalmente l’assetto sociale senza affrontare il problema di una transizione e senza vedersi costretti a tollerare gli aspetti inerziali di un processo rivoluzionario pilotato da una minoranza agente. La massa dà fiducia ai cambiamenti, e li avalla, solo se le cose funzionano e comportano dei miglioramenti pratici reali. Vuole sicurezza, una casa, mangiare, potersi curare, crescere i propri figli. Per la gran parte degli umani, i massimi sistemi e la poesia hanno senso soltanto se si trasformano in una convenienza concreta, palpabile, “progressiva”. In caso contrario, i cambiamenti e le belle parole restano una turbativa, un inutile spreco di speranze.

Nel suo diario spagnolo, la miliziana Weil annota senza remore quelli che ritiene i ritardi e le contraddizioni della rivoluzione, benché, a onor del vero, non fossero trascorsi ancora due mesi dall’insurrezione popolare contro i militari golpisti: «[Villafranca del Penedès, intorno al 5 settembre ‘36] Berthollet mi aveva detto che vi regnava il comunismo libertario. In realtà, non è stata soppressa la moneta, neanche per un giorno. Né collettivizzati i campi. I contadini (i rabassaires) non pagano la rendita (…), punto e basta. Si collettivizzerà da qui all’anno prossimo (?). Un grande magazzino il cui padrone è stato fucilato. Collettivizzato? “Lo si sta facendo.” Molte piccole fabbriche (da otto a dieci operai), meccanica, ecc. I padroni vi lavorano come operai. Collettivizzate o cooperative (differenza?). Il Comitato del Fronte popolare (C.N.T., P.O.U.M., Esquerra) gli ha commissionato e pagato un camion blindato. Risorse: imposta di guerra, conti bancari dei reazionari. “I reazionari non sono stati ammazzati, li si fa pagare.” La Esquerra e la Lliga avevano quasi lo stesso peso. “Che ne è stato dei militanti della Lliga ? – Niente, hanno aderito alla C.N.T.” (!!!) (Sono i piccoli padroni diventati operai.) C’è stata una trentina di esecuzioni: il prete e alcuni grandi proprietari. “Fascisti? – Non proprio, fascisti di fatto”, cioè farabutti»7.

Allorché entrano in ballo i conti e i tornaconti, il processo insurrezionale cede il passo alla rivoluzione, al governo della trasformazione, e il tempo storico – la transizione, la narrazione – si riappropria di ogni gesto, di ogni unicità.

Qui si gioca la partita, l’intera partita della trasformazione, anche al di fuori di ogni partito preso rivoluzionario (come pretendono di fare gli anarchici). I meccanismi di massa, benché reindirizzati, mutati più o meno radicalmente, delimitano il territorio del cambiamento, lo spazio agibile della trasformazione, al cui interno l’essere sociale della rivoluzione finisce per coartare il divenire insurrezionale delle possibili com-unicità.

Non si esce storicamente da un tale gioco a perdere, mi pare indubbio, e lo scontro tra la società e le com-unicità rimane effettuale anche nei momenti rivoluzionari. Eppure, è proprio in questa tensione conflittuale che le com-unicità emergono dal fondale del tutto per re-esistere a ogni presunzione sociale di salvezza e godere così della propria potenza nell’immediato.

Il divenire della gioia accarezza le superfici della trasformazione e riporta a casa chi fugge criticamente il sacrificio, le idee insindacabili e le aporie della bellezza.

Nella collettività agricola di Peñalba, un villaggio aragonese dove nell’estate del ‘37 erano presenti circa 500 collettivisti su un totale di 1.500 abitanti, fu abolita, come primo passo, la moneta nazionale (la peseta). Successivamente, venne introdotto un salario familiare commisurato al numero di membri della famiglia e spendibile come carnet di buoni unicamente presso i magazzini della collettività. In base a tale formula, ciascun nucleo familiare poteva ottenere quotidianamente una razione di viveri e di altri prodotti in base al salario spettante, con la possibilità di ricevere nei giorni successivi tutto ciò che non fosse stato ritirato in precedenza, il che generò inizialmente delle forme di accumulazione da parte di chi non si riforniva di proposito, oppure sprechi di derrate deperibili da parte di chi ritirava tutto il dovuto senza però consumarlo. La collettività decise quindi di consentire delle forme limitate di risparmio, scoraggiando viceversa gli sprechi. A una data scadenza, tuttavia, chi aveva accumulato dei risparmi era obbligato a ritirare un ammontare equivalente di prodotti, pena la cancellazione delle somme non spese. In tal modo, i collettivisti cercarono di minimizzare i fenomeni di tesaurizzazione e arricchimento individuale a danno della comunità, pur mantenendo il sistema salariale e un larvato valore di scambio, la cui trasformazione in capitale qui però si trovava bloccata, venendosi infatti a inceppare la dinamica essenziale della valorizzazione capitalista, ossia usare il denaro per comprare merci sul mercato al fine di rivenderle e realizzare più denaro grazie a un surplus di valore8.

L’anarchismo storico, per come si sviluppa soprattutto con Proudhon e Bakunin (senza dimenticare però gli apporti decisivi di Kropotkin e Malatesta), ha un impianto teorico essenzialmente socialista e collettivista. Il suo obiettivo principe, infatti, è una trasformazione rivoluzionaria e antistatale delle strutture sociali. I suoi principî di base, in tal senso, sono chiari, netti, inderogabili: antiautoritarismo in tutte le sue forme, con conseguente lotta contro ogni potere e autorità; ricerca di un equilibrio tra l’unicità dei singoli e una tendenziale eguaglianza mediante pratiche di solidarietà e mutuo appoggio; coerenza tra mezzi e fini, la quale si concretizza nel rifiuto della delega e nella pratica dell’azione diretta; autogestione della produzione e delle lotte, o, per meglio dire, autoproduzione dell’individualità e della comunità, con lo sviluppo di una loro autonomia rispetto a Stato e capitale; formazione di gruppi e organizzazioni tendenzialmente antiverticistici, orizzontali, all’insegna dell’affinità e della reciprocità tra i singoli membri; costruzione di alternative reali al lavoro salariato, all’uso della moneta, alla mercificazione.

Io sono su un territorio diverso, per niente sociale. Mi faccio piacere le strutture sociali soltanto quando mi servono per poter galleggiare sulle mie contraddizioni. Per il resto, cerco di rintuzzare in me e fuori di me la pervasività dei dati sociali e dei valori su cui si fonda la civiltà (e quindi i poteri) dell’umana congerie.

Il mio territorio non è la società. Il mio territorio è costituito dalle posizioni che assumo dentro i miei affetti e dentro le mie paure. La società è la palude dei contorsionismi legati al valore e al lavoro. Io non accetto la ginnastica della subordinazione. Io desidero tutto il possibile. E se questo desiderio mi allontana dalle separazioni che m’impone la società, significa che sono sulla strada giusta: la mia.

L’anarchismo storico incappa in un fallimento epocale proprio nella Spagna degli anni Trenta.

Le collettività catalane e aragonesi del 1936-‘37 restano certamente tra le più grandi sperimentazioni rivoluzionarie del Novecento. Appare evidente però che esse furono possibili solo grazie alla resistenza del proletariato armato contro il colpo di stato franchista del luglio 1936. Senza il golpe e senza la formazione quasi immediata delle milizie proletarie in alcune regioni, le collettività urbane e rurali non sarebbero mai sorte – o, di certo, non in tempi brevi.

Si può opinare a giusta ragione che il golpe militare fosse già una sorta di controrivoluzione preventiva contro il montare dei movimenti sociali, ma occorre anche ricordare che le organizzazioni operaie, all’epoca, nicchiavano all’ombra della Repubblica, o, come la CNT, si leccavano le ferite dopo le insurrezioni fallite degli anni precedenti cercando nel contempo di sanare i dissidi dottrinari interni (si pensi ad esempio alla corrente moderata dei treintistas all’interno della CNT).

Certo, gli anarcosindacalisti erano fortissimi, potendo contare su centinaia di migliaia di aderenti e simpatizzanti. Il loro lavoro di propaganda presso le masse operaie e rurali era stato enorme, capillare. Tuttavia, fu la determinazione della base a permettere la vittoriosa resistenza in diverse zone della Spagna.

Sappiamo intanto come andò a finire. L’appoggio ai franchisti da parte di Italia e Germania, nonché il sabotaggio interno della rivoluzione ad opera degli stalinisti appoggiati da Mosca, non permisero lo sviluppo delle sperimentazioni autogestionarie. Non dimentichiamo però gli errori madornali (e di natura squisitamente politica) della dirigenza cenetista, tra i quali vanno annoverati: il disarmo delle milizie proletarie; l’avallo di una rigida militarizzazione delle colonne che combattevano al fronte; l’entrata di alcuni esponenti anarcosindacalisti nei governi repubblicani della Generalidad catalana e dello Stato centrale; il mancato esproprio dell’oro della Banca di Spagna (il cui 70% finì poi a Mosca); il “cessate il fuoco” intimato alle migliaia di miliziani che avevano preso le armi contro gli stalinisti a Barcellona nel maggio del ‘37 per fronteggiare la controrivoluzione interna.

Durissimo sarà il giudizio sull’esperienza spagnola dato dal surrealista francese Benjamin Péret rispondendo a un questionario della Fédération Communiste Libertaire nel 1956. Péret, che aveva combattuto da volontario sia nelle milizie del POUM, sia nella Colonna Durruti, scrive: «L’antiautoritarismo anarchico tendeva in principio a suscitare l’iniziativa diretta della massa incitando la classe operaia a prendere essa stessa la direzione delle sue lotte. L’anarchismo ha dimostrato che la classe operaia era capace di iniziative rivoluzionarie e possedeva un sentimento di classe. In seguito, l’anarchismo si è trasformato. La sua teoria detta “delle minoranze agenti” costituisce nei fatti un ritorno indietro, benché inconfessato, alle posizioni del blanquismo e del socialismo marxista. In effetti, queste “minoranze agenti” non formano nient’altro che un partito senza struttura, ciò è evidente nei rapporti tra la F.A.I. – minoranza agente – e la C.N.T., organizzazione di massa. L’anarchismo ha una vera fobia di certe parole (parlamentarismo, Stato, partito) e crede in una virtù magica dell’esempio di cui sopravvaluta considerevolmente la portata. L’antiautoritarismo e l’antistatalismo anarchici non hanno resistito alla prova dei fatti. La rivoluzione spagnola ha mostrato da questo lato l’inconsistenza delle teorie anarchiche, perché i rappresentanti della F.A.I. si sono trovati al fianco dei ministri stalinisti, socialisti e liberali nei governi della zona detta “repubblicana”. Per non aver potuto sopprimere lo Stato in generale, si sono associati allo Stato capitalista. L’anarchismo non si riprenderà più da questo fallimento»9.

Ora, se l’anarchismo storico è uscito chiaramente sconfitto dalla sua tenzone novecentesca con capitale, fascismi e stalinismo, non si può certo dire che l’idea di anarchia sia morta. Anzi, essa riaffiora costantemente in pratiche e in brandelli di senso attraverso l’affermazione asociale e antisociale delle com-unicità.

A perdere, è stato l’anarchismo sociale, non la disposizione critica del vivente a svincolarsi dalle dinamiche di potere della civiltà per mezzo di dinamiche autonome ed affettuose.

Ciò che chiamo anarchia è meno una causa e più una tendenza, una tensione, una continuità tra le diverse esperienze singolari di godimento autonomo dell’esistente. Non è appartenenza a un partito preso. Assumerne la tensione porta infatti a sganciarsi da ogni “partito”, da ogni cristallizzazione dei processi creativi, e a distruggere tutte le “verità” che non emergano dalle esigenze della propria unione con l’Altro.

L’anarchia non è un’utopia, non è un ideale che ci proietta in un mondo futuribile dai contorni vaghi, indeterminati, infine liberato ed egualitario, bensì una prassi attuale, un’affermazione gioiosa e tracotante della presenza, grazie alla quale il singolo non si tiene più nei limiti del buonsenso e della “pace sociale”.

L’insurrezione diventa la necessità di chi lotta contro ogni dover essere. Io insorgo in quanto unico e in quanto protagonista di ogni unione cui decido di appartenere. Ho radici, radicalità, un saldo fondamento in me, nel mio corpo, nella mia volontà irriducibile, come pure in ciò che penso ed abbraccio, però ho anche rami, mani che vogliono afferrare l’esistente senza stritolarlo, pensieri come rampicanti che s’inerpicano lungo i percorsi della decisione e che mi consentono di sollevarmi al di sopra dell’ordinarietà, della legalità. Mi regalo così un territorio, un andamento, un’aria buona. Certo, posso errare, posso accettare dei compromessi al fine di rilanciare il mio godimento, a volte posso smarrirmi agli incroci della vita per cercarvi un senso, «in ogni caso [come dice Stirner], troverò persone a sufficienza, che si uniranno a me senza prestare giuramento alla mia bandiera»10. Anzi, a quel punto, avendo fatto addirittura a meno di ogni bandiera, non avrò più bisogno d’innalzare proclami o di affermare una qualche “segnaletica”. La mia gioia sarà infondata, impermeabile alle paure del momento, e l’unicità delle mie relazioni avverrà in ogni mio tocco, in ogni luogo fattosi comune e affettivo per me e l’Altro.

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NOTE

1 Salvo ove diversamente indicato, le notizie su S. Weil in Spagna sono tratte da: Simone Pétrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano, 2010, cap. III, pp. 361-374.

2 Weil è sicuramente con la Columna Durruti già dal 14 agosto. Ne fa fede un’annotazione del suo diario di quei giorni. Cfr. Journal d’Espagne, in: Simone Weil, Écrits historiques et politiques, Gallimard, Paris, 1960, pp. 209-216.

3 Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale [1934], in: Simone Weil, Œuvres, Quarto Gallimard, Paris, 1999, pp. 275 e 347.

4 S. Weil, Journal d’Espagne, cit.

5 S. Weil, Journal d’Espagne, cit.

6 I dati sono ricavati da: Frank Mintz, Autogestión y anarcosindacalismo en la España revolucionaria, Ediciones Anarres, Buenos Aires, 2008, pp. 101-102.

7 S. Weil, Journal d’Espagne, cit. Berthollet era evidentemente un miliziano che faceva parte dello stesso gruppo della Weil, sul quale non ci sono notizie biografiche. Rabassaire è termine catalano che indica il vignaiolo, il vendemmiatore. L’Esquerra era il partito repubblicano di sinistra che rivendicava l’indipendenza della Catalogna. La Lliga, invece, era un altro partito catalanista, ma monarchico e conservatore.

8 José Peirats (1908-1989), ex segretario della CNT in esilio e storico dell’anarcosindacalismo spagnolo, passa in rassegna una quarantina di esperienze collettiviste in: La C.N.T. nella rivoluzione spagnola, Edizioni Antistato, Milano, 1977 (cfr.: vol. II, cap. 15, “Le collettivizzazioni”, pp. 7-120).

9 Benjamin Péret, Œuvres Complètes, tome 5, Librairie José Corti, Paris, 1989, pp. 285-286. La F.A.I. [Federacion Anarquista Iberica] era un insieme organizzato di gruppi di affinità che, dalla sua fondazione, avvenuta nel 1927, si poneva l’obiettivo primario di difendere i principi anarchici all’interno della CNT rintuzzandone le derive burocratiche e centralizzatrici.

10 Max Stirner, Der Einzige, Reclam, 1973, p. 261.

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