«Non voglio dire che qualcuno dovrebbe smettere di dipingere, scrivere, ecc. Non voglio dire che questo non abbia valore. Non voglio dire che potremmo continuare ad esistere senza fare questo. Ma sappiamo anche che tutto questo sarà invaso dalla società, per essere usato contro di noi.»
Attila Kotányi, Internationale Situationniste, n. 7, aprile 1962, p. 27.
Siamo seri: a ben pochi importa davvero della poesia, in questa società di umani incompiuti (e dove la precarietà è un’insufficienza a pensare l’impossibile), quando molti di coloro che credono di possederla ne spossessano in realtà tutti gli altri costringendola in un ambito affatto separato – il milieu delle Lettere – limitando i segni poetici in strutture che restano inoffensive e oltremodo patetiche.
In cosa dovrebbe consistere invece l’impresa che si vuole poetica? A cosa dovrebbe volgersi il cimento di chi la assume?
Per quanto mi concerne – e parlo per me, per i limiti che intendo oltrepassare partendo da ciò che ancora non mi esorbita – la poesia è apertura decisiva sul mondo, capacità di cogliere gli aspetti unici e belli del vivente e, più di tutto, relazione con coloro che sentono il bisogno di dare un significato avvincente alla vita quotidiana.
In altri termini, ai miei occhi, un facitore di versi non è necessariamente un poeta.
Ciò nonostante, se vogliamo limitarci a discorrere di poesia “scritta”, la domanda capitale che dovrebbe porsi ogni umano che si mette in opera, non è: perché si scrive?, ma semmai: per cosa o a chi si scrive?
Il punto è infatti questo: siamo capaci o no di partire dalla nostra unicità – e dai segni che la veicolano – per andare verso l’altro, vivificandone la singolarità e rendendo quindi possibile uno sviluppo ingovernabile della relazione che viene a crearsi, in modo da dare un senso alla nostra esistenza contro il sistema di potere che offende ogni autentica relazione tra i viventi?
Dare un senso, sì, di questo si tratta – dove “senso”è l’aderenza al mondo e al suo sviluppo critico attraverso i rapporti che manteniamo vivi dentro e intorno a noi.
E il senso rimane e si diffonde tra di noi nonostante l’eventuale mancata ricezione delle parole “culturali” che lo veicolano, proprio perché viene fatto attraverso un rapporto tra viventi, attraverso cioè l’incidenza di una relazione che si riverbera ben al di là del cerchio di parole di chi la forma, deforma o trasforma.
Poesia è un’escrescenza insurrezionale che nasce e si sviluppa nell’esperienza di ogni vivente che si vuole amoroso e combattente.
Poesia è l’amore ingovernabile che mi agisce. Amore come poesia dell’agire contro il dominio dell’inessenziale. E la poesia dell’agire diventa decisiva – si fa politica, teoretica ed erotica – solo se scatena relazioni di senso – altrimenti, per quanto mi riguarda, è un trastullo inutile per gente inutile.
In tutto questo, il movimento della poesia ha da sempre un suo giudizio, perché giudica con rigore la bruttezza del mondo e la condanna senza mezzi termini.
1 – Continua
Fotografia di Donatella Vitiello
@morfea
Se abbandonare i condizionali significa lasciare il regno delle ipotesi per la volontà di trovare una sintesi sovrana, allora sì. Credo addirittura che questo sia ormai un passo doveroso, improrogabile e colmo di dignità.
La libertà, come elemento politico, si è rivelata infine un bluff. Siamo quindi costretti ad adottare delle parole diverse per riuscire a dire meglio (e in modo netto) le cose che la “libertà” non dice più, combattendo senza remore l’inquinamento provocato dalla semiosi del potere che ci vende e perimetra i cosiddetti “diritti soggettivi”.
Io, ad es., uso spesso la parola unicità, in un senso che qui si potrebbe definire post-stirneriamo, ossia di superamento delle stesse ideologie anarchiche o nichilistiche che si sono impadronite del pensiero di Max Stirner negli ultimi 150 anni.
Concetto che spiego, o cerco di spiegare, a modo mio, tra le pagine del prossimo libro.
non è che un concetto, la poesia.
bisogna, anziché riempirlo, sventrarlo e usare le sue viscere per costruire un legame col mondo.
molti miao*
Ricreare concetti? Uhm…
Un po’ quello che si diceva, tempo fa, dei concetti che devono farsi carne e rimbalzare di corpo in corpo.
Detto questo, la mia idea di poesia resta dinamica, fa quindi a pugni coi concetti. Per me la poesia resta la qualità possibile dei nostri rapporti col mondo. Tutto il resto (i concetti da ricreare, le parole, la poesia “scritta”, ecc.) è solo un effetto, spesso incidentale, di quella qualità, di quel rapporto di cuore tra noi e l’esistente.
sono giorni da rientro.
sono giorni che qualcosa mi smuove, una mano che gira l’impasto e non sempre è lucido e bianco.
perchè si scrive.
io per liberarmi, ma nemmeno questo basta a volte.
[bel post e la foto eccellente…davvero]
Mi chiedo ormai senza posa quanto la parola possa liberare, scatenare l’umano (o ciò che ne resta).
Forse non si dovrebbe neanche più parlare di libertà. L’idea di libertà è ormai un guscio vuoto.
Su questo m’interrogo e tornerò prossimamente.
Ogni giorno mi smuove e ogni rapporto mi muore, se non ostacola la morte che sento in ogni rapporto parziale.
[Donatella sta facendo un bel lavoro, sì. Io non posso che incitarla.]
forse siamo agli sgoccioli, la libertà è solo una parola si, un guscio vuoto come dici tu.
e devo smettere l’uso dei condizionali se voglio vivere meglio. dentro.
[s. mi piace. si :)]