[ Aggiornamento: alla fine del 2013 ho curato una nuova edizione del testo blanchotiano per la Maldoror Press. Si tratta di un ebook gratuito e in formato pdf. Link alternativi per il download gratuito: < Mediafire > < Internet Archive > < Pochi Amici Molto Amore > ]
Qui di seguito potete leggere l’incipit di La folie du jour, un testo di Maurice Blanchot pubblicato originariamente nel 1973. I passi sono presi dalla versione italiana che ho curato per le edizioni L’Obliquo di Brescia nel 2005. L’edizione raccoglieva anche L’instant de ma mort, un breve scritto blanchotiano del 1994, e, in appendice, due poesie di Georges Bataille e René Char. Nella foto, Blanchot (a sinistra) con il filosofo Emmanuel Lévinas.
Io non sono né saggio né ignorante. Ho provato gioie. È troppo poco dire: sono vivo, e questa vita mi dà il piacere più grande. La morte, allora? Quando morirò (forse tra breve), conoscerò un piacere immenso. Non parlo del pregustare la morte che è insulso e spesso sgradevole. Il soffrire abbrutisce. La grande verità di cui sono sicuro è invece questa: provo nel vivere un piacere senza limiti e avrò nel morire una soddisfazione senza limiti.
Ho vagato, sono passato da un posto all’altro. Stabile, ho abitato in una sola camera. Sono stato povero, poi più ricco, poi molto più povero. Da bambino, avevo grandi passioni, e tutto quel che desideravo, lo ottenevo. La mia infanzia è sparita, la mia giovinezza è sulle strade. Non importa: ciò che è stato, mi rende felice; ciò che è, mi piace; ciò che avviene, mi conviene.
La mia esistenza è migliore di quella degli altri? Può darsi. Ho un tetto, molti non ce l’hanno. Non ho la lebbra, non sono cieco, vedo il mondo, fortuna immensa. Lo vedo, questo giorno fuori del quale non è niente. Chi potrebbe sottrarmelo? E sparendo questo giorno, io sparirò con lui, pensiero, certezza che mi trasporta.
Ho amato degli esseri, li ho perduti. Sono diventato pazzo quando questo colpo si è abbattuto su di me, perché è un inferno. Ma la mia follia è rimasta senza testimoni, il mio smarrimento non era manifesto, la mia sola intimità era folle. Talvolta, diventavo furioso. Mi si diceva: Perché siete così calmo? In realtà, bruciavo dalla testa ai piedi; di notte, correvo per le strade, urlavo; di giorno, lavoravo tranquillamente.
Poco dopo, si scatenò la follia del mondo. Fui messo al muro come molti altri. Perché? Per niente. I fucili non spararono. Mi dissi: Dio, che fai? Smisi allora d’essere insensato. Il mondo esitò, poi riprese il suo equilibrio.
Con la ragione, mi ritornò il ricordo e vidi che, anche nei giorni peggiori, quando mi credevo perfettamente, completamente infelice, ero tuttavia, e quasi sempre, estremamente felice. Ciò mi fece riflettere. Questa scoperta non era piacevole. Mi sembrava di perdere molto. M’interrogai: non ero forse triste, non avevo sentito la mia vita spezzarsi? Sì, era successo; ma, in ogni momento, quando mi alzavo e correvo per le strade, quando restavo immobile in un angolo della stanza, la freschezza della notte, la stabilità del suolo mi facevano respirare e riposare sull’esultanza.
Gli uomini, specie bizzarra, vorrebbero sfuggire alla morte. E alcuni gridano, morire, morire, perché vorrebbero sfuggire alla vita. «Ma quale vita, mi uccido, mi arrendo.» Ciò è pietoso, strano, è un errore.
Ho incontrato tuttavia degli esseri che non hanno mai detto alla vita, taci, e alla morte, vattene. Quasi sempre delle donne, creature belle. Quanto agli uomini, il terrore li assedia, la notte li ferisce, vedono i loro progetti annientati, il loro lavoro ridotto in polvere, restano sbigottiti, loro, così grandi, che volevano costruire un mondo, ma tutto sprofonda. (…)
*
René Char
Maurice Blanchot, ci fosse piaciuto rispondere…
Ci fosse piaciuto rispondere a questioni mute, a prove di movimento. Invece si ebbe quell’improvvisata e fatale trasgressione…
L’infinito irrisolto e incompreso: un tutto stabilito, aderente o no, come la morte, come un altrove che un fuoco recita all’aria asservita.
Il tempo s’approssima, in cui ciò che seppe restare inesplicabile potrà solo riaverci.
Rigettare l’avvenire lontano da sé per la tutela di una resistenza, lo sviluppo d’un fumo.
Tu dipani i tuoi irresistibili rifiuti, terra. Tu hai spezzato, sepolto, ammassato! Ciò che ricusiamo, la cui impudenza ci rende inoperosi, non otterrà da te il suo differimento.
La notte in cui la morte ci accoglierà, sarà piana e senza tare; quel po’ di scirocco dispensato dagli dèi un tempo, diverrà un alito fresco, ben diverso dal primo che si schiuse in noi.
Mantenne la rosa al vertice finché non smisero le proteste.
Maurice Blanchot, nous n’eussions aimé répondre…, in: René Char, Le Nu perdu, Gallimard, Paris 1971, pp. 58-59.
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Per anni, ho tenuto le parole all’altezza della mia vita, seppellendole nella stessa terra dove ero seppellito anche io. Guardavo tutto quel vetro masticato da ogni lettera e sulla mia barba morbida c’era tutto il latte di un agnello gambizzato da una paura affilata di spasmi.
Ho tenuto le molotov sulla scrivania, confondendo l’inchiostro con la benzina; il panno non si accendeva, e al rompersi della bottiglia, finivo per macchiare il mondo, e le vecchie gridavano “Com’è sporco il muro!” Qualcun altro, più stolto di quelle bigotte, applaudiva con le grandi labbra, e mi piacque prendere le loro gocce, finché non più sete, ma calda pelle e pelliccia di cammello mi impastava la bocca, tanto che avrei preferito le spine.
Oggi, bisognerà che io riprenda le parole, smettendo di smussarle o renderle spigolose, secondo vacui cliché letterari. Dovrò metterci il fuoco della solitudine segreta e infilare l’aratro nella terra fertile di tutta la mia incoerenza per cacciarne fuori miseri personaggi e tristi figuri. Bisognerà commisurare la merda e la gioia, con la stessa meticolosa cura con cui il buon respiratore dosa ossigeno e anidride carbonica. Sapete che si può morire di troppo ossigeno, e che il corpo necessita di un buon equilibrio tra i due gas?
C’è un’asfissia nelle vite che cercano sempre la vita e c’è un’asfissia in quelle che cercano sempre la morte. Ed ora che c’è tanto cadavere quanta gravidanza in questo misero corpo, di cui è parte il mio corporeo cervello, bisognerà trovare moriture e nasciture parole per descriverlo.
Perché non si ceda alle lusinghe di una scrivania o di un contratto, della creatività o del colore aziendale, del manuale d’uso del logo o della riunione settimanale. Cedere per il nulla, s’intende. Unabomber avrà pure lavato qualche piatto in un’osteria, prima di togliersi la soddisfazione di una cieca vendetta contro ogni essere umano?
Ci sono robot, automi, macchine da profitto in ogni dove, e molti sono quelli che vantano ancora un cuore, una maschera, l’arte della finzione e del mimetismo. Anche i colleghi più inseriti si svegliano depressi, ogni mattina, da millenni, e nascondono le loro smanie luddiste, impauriti di sembrare impauriti. Anche Stakanov piange tra le ginocchia di sua moglie, alla sera; l’ho visto e lo vedo con i miei occhi.
Il problema è far tracimare le parole, esagerando oltre la diga del libro, sfondando il cemento armato, aldilà di ogni prestabilita capienza.
sei meravigliosamente ridicolo
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Nei giorni scorsi non ti ho letto. Quindi me lo sono perso. Quindi lo cerchero’.
non so dove, hai scritto da qualche parte a proposito della vita “piatta” di grandi poeti e pensatori, o qualcosa di simile…mi piacerebbe ritrovarlo, quel brano
credo che l’intensità dei sentimenti possa essere infinita anche solo osservando lo scorrere di gocce di pioggia sui vetri di una finestra…insomma, vorrei rifletterci un po’
se ricordo bene quelle parole (ma la mia memoria è un colabrodo) vorrei cercare di confutarle, ecco
ho incrociato versi che mi provocano vertigini, e scrivono di neve, di ali, di foglie e di vento…stupefacenti (o forse sono io poco avvezza ai significati delle piccole cose)
N.
Forse ti riferisci ad un aforisma tratto da Così perdutamente umani, non so. Credo comunque da sempre che molti poeti e pensatori abbiamo avuto una vita ben poco poetica. La letteratura del Novecento, ad esempio, è costellata di piccoli impiegati delle Lettere, senza nerbo, senza la volontà di creare uno spazio reale per l’oltranza. La coerenza è difficile, me ne rendo conto, ma non si può condurre una quotidianità al di sotto delle proprie parole. Io lo considero come minimo di cattivo gusto.
Le piccole cose, come le chiami tu, sono le fondamenta delle grandi. Non sono i massimi sistemi a fare gli uomini, ma la loro capacità ad unire i propri frammenti di vita dentro una tendenza unitaria, netta, senza fronzoli. Io la penso così.
… quasi sempre delle donne …
Non posso dargli torto. Le donne hanno segnato in gran parte la mia vita. A tratti, in qualche modo, l’hanno anche siglata. Belle creature…
P.S.: l’incipit di un mio testo dei giorni scorsi, in tema di donne, credo sia assolutamente calzante.