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Nella mia prefazione al volume: Isidore Ducasse conte di Lautréamont, Dieci unghie secche invece di cinque (Giunti, 2005), tracciavo un breve parallelo tra il pensiero di Max Stirner e i Canti di Maldoror di Lautréamont, parallelo che qui ripropongo.

La rivolta di Maldoror s’apparenta storicamente con l’apologia dell’individualismo anarcoide tracciata da Max Stirner [1].
Il discorso di Stirner, preso nella sua globalità, è una fiumana vandalica in cui si sentenzia lucidamente e senza tregua sulla qualità, la forza e la singolarità dell’io. Attaccando e invalidando tutti i valori e le strutture metafisiche del pensiero, il filosofo tedesco – come una sorta di Sade redivivo che ha masticato Hegel per poi risputarlo – fonda il suo incessante monologo sull’esaltazione dell’unica realtà che ritiene davvero esistente: vale a dire se stesso, l’unico, il sovrano “proprietario” di sé, l’egoista illuminato, avido di godersi compiutamente e senza mezzi termini. La sua, è l’affermazione dell’uomo che si crea da sé contro tutti i concetti, e contro lo stesso concetto di unicità – che secondo Stirner è “indicibile”, non afferma nulla, non ha alcun fondamento, e non può neanche essere definito attraverso il nostro linguaggio “cristiano”, poiché si basa sull’io singolare che non ha né causa né principî e che, con furibonda ironia, si vuole ostinatamente al centro dell’universo. Ma l’egoista stirneriano non riesce con le sue sole forze a dispiegare pienamente le capacità di cui dispone. Pur non sacrificandosi mai per il bene di una collettività indistinta o astratta – che non riconosce come propria –, giunge tuttavia ad associarsi puntualmente, con alcuni dei suoi “simili”, in quella che Stirner definisce unione degli egoisti. Nasce in tal modo la dimensione relazionale dell’unico, che si basa dinamicamente su un ri-associarsi ininterrotto, un rapportarsi al mondo che dà vita al godimento di sé in legami interindividuali che non eclissano le qualità dei singoli partecipanti, poiché quest’incessante ri-aversi, nell’ambito della comunanza che si sceglie, tra uomini diversamente unici, non comporta l’istituzionalizzazione della propria vita di relazione in schemi di potere. Nell’associazione propugnata da Stirner, dove ci si fa dono delle proprie forze vitali nell’unione degli egoismi singolari, viene allora ad affermarsi il bisogno di vivere la presenza del proprio corpo, di sentire la vita, di farla veramente propria, di goderla nella sua effettiva e caduca unicità, insieme e attraverso l’unicità degli altri. L’uomo si spinge così a concretizzare tutte le esperienze che nascono dalla materialità dei corpi. La sua carnalità, il suo desiderio, la sua ricerca della gioia lo pongono in uno stato di frenesia da cui parte la conquista del mondo. Da qui, ogni esperienza viene vissuta nell’immediato e nella prospettiva immanente della gioia. In tal modo, anche la sofferenza, anche gli errori, anche gli stessi limiti della propria unicità diventano gli elementi di un gioco che va significando, giorno dopo giorno, e senza fine apparente, la compiutezza immanente della propria vita.

Se l’opera di Stirner risulta ancora oggi una vera e propria pietra d’inciampo per gli specialisti della filosofia, che si limitano a  passarlo sotto silenzio o a bonificarlo maldestramente in pubblicazioni o congressi anodini, il transito di Lautréamont/Ducasse in ambito letterario va posto analogamente sotto il segno di uno scompiglio duraturo, soprattutto perché mette in discussione in modo radicale quello stesso ambito che lo ha accolto. Anche lo stile dei due autori sembra somigliarsi: è allo stesso tempo ironico e pedante, lucido e violento, lacerato dai limiti del linguaggio e autoreferenziale fino allo spasimo.
Ci sono diversi passaggi in Stirner che potrebbero trovar posto tra le pagine di Maldoror [2], come pure alcuni brani di quest’ultimo che richiamano alla mente il discorso dell’Unico: «Se io esisto, non sono un altro. Non ammetto in me questa equivoca pluralità. Voglio risiedere da solo nel mio intimo ragionamento. (…) La mia soggettività e il Creatore, è troppo per un cervello solo» [3].
Anche in Lautréamont, l’io consapevole di sé si ritrova “egoista”, non per deviazione, natura o accidente, bensì sulla scorta di una scelta di campo quanto mai netta e risoluta. Si è infatti autenticamente se stessi solo nella misura in cui non si è per nulla subordinati ai fantasmi e alle “idee fisse” della società. Di conseguenza, facendo leva sulla volontà, sul desiderio e sulla propria forza vitale, le capacità del singolo fondano l’immanenza che travolge la norma. «Si tratta soltanto di non farsi beccare [afferma Lautréamont]. La giustizia stabilita dalle leggi non vale nulla; è la giurisprudenza dell’offeso che conta» [4].


[1] Beninteso, il mio parallelo tra Lautréamont e Stirner (pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, 1806-1856) vuole essere soltanto ideale, quantunque sia stato avanzato anche da altri: cfr. Roberto Calasso, «Elucubrazioni di un serial killer», in La letteratura e gli dèi, Adelphi, Milano, 2001, pp. 71-88; e Francesco M. De Sanctis, «Introduzione», in Max Stirner e l’individualismo moderno, Atti del convegno omonimo, «Pubblicazioni dell’Istituto Suor Orsola Benincasa», CUEN, Napoli, 1996, pp. 9-12. L’opera più famosa di Stirner, Der Einzige und sein Eigentum, era apparsa a Berlino nell’ottobre del 1844, ma le prime due versioni francesi furono pubblicate soltanto nel 1900. Diventò ben presto la “Bibbia” degli anarchici individualisti. Per i lettori volenterosi, ci sono delle ottime edizioni italiane dei testi stirneriani, sia dell’opera maggiore (Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano, 1979), sia della produzione cosiddetta “minore” (M. Stirner, Scritti minori, Pàtron, Quarto Inferiore [Bologna], 1983).

[2] Ne propongo soltanto uno ai miei lettori, ma che è davvero esemplare: «Io sono “Unico”. Ma questo tu non lo vuoi proprio. Tu non vuoi che io sia un uomo reale; alla mia unicità tu non dai alcun valore. Tu vuoi che io sia l’“uomo” come tu l’hai costruito, quale modello per tutti. Tu vuoi rendere norma della mia vita il “plebeo principio dell’uguaglianza”. Principio per principio! Esigenza per esigenza! Io ti oppongo il principio dell’egoismo. Io voglio essere soltanto io. Io disprezzo la natura, gli uomini e le loro leggi, la società umana e il suo amore; e tronco ogni rapporto obbligatorio con essa, perfino quello del linguaggio. A tutte le pretese del vostro dovere, a tutte le indicazioni del vostro giudizio categorico io oppongo l’“atarassia” del mio io. Sono già arrendevole, se mi servo della lingua. Io sono l’“indicibile”, “io semplicemente mi mostro”. Con il terrorismo del mio io, che respinge tutto ciò che è umano, non ho io altrettanta ragione quanta ne avete voi col vostro terrorismo dell’umanità che subito mi qualifica come “non-uomo”, se pecco contro il vostro catechismo, se non voglio che mi si disturbi nel godimento di me stesso?» (M. Stirner, Scritti minori, cit., p. 166).

[3] Les Chants de Maldoror, canto V, strofe 3.

[4] Ibidem, II, 6.

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