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Questo è il primo paragrafo della mia nota che fa da appendice all’ebook di Roberto Belli, Il corpo che non ho ancora scritto, illustrato da alcune opere di Gianguido Oggeri Breda (come quella che ammirate qui sotto, tratta dalla serie erotoplasmi) e pubblicato da Maldoror Press.

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Si può certamente vivere senza chiedersi del perché si viva. Ma una tale domanda, benché elusa, resta comunque nel sangue, calcifica i dubbi e non rende meno improbabile la sopravvivenza delle nostre voci.
Accade anzi che finiamo per  riflettere sulla fatica di stare al mondo senza mettere a fuoco gli elementi essenziali di quest’ultimo.
C’è dell’ironia nel mettere a fuoco qualcosa, non credi?
Il mondo viene assorbito dalla fatica e genera sempre qualche tacita interrogazione. Nascondere qualcosa ingravida il vuoto. Fece così anche Dio, a quanto pare.
Sarà forse la stazione eretta, chissà, ma intanto la ricerca di un baricentro rimane la prospettiva fisica e mentale dell’uomo. Avere coscienza della propria massa e tenerla dentro il suo centro. Oppure individuare un centro intorno al quale concentrare tutta la propria massa. Trovare quindi un equilibrio tra le forze interne ed esterne che entrano in gioco nel movimento dei corpi.
Anche in questo c’è dell’ironia, a pensarci bene.
Resta in qualche modo disdicevole la sopravvivenza degli umani quando le loro menti si allontanano dalla natura dell’essenziale. La scelta è sempre tra il controllo e l’autonomia, tra il potere e la potenza, tra il concetto e un’apertura implacabile sul mondo, ovvero, in altre parole, tra le diverse qualità possibili del nostro rapporto con l’esistente.
Una volta creatasi una massa, ossia una quantità di materia passibile di movimento, nasce con essa un’interrogazione, una richiesta di spazio, nonché una trama di relazioni possibili (e impossibili) con tutto il resto.
L’aveva già detto Hegel. L’uomo non sa chi è finché non si mette in opera. È solo attraverso la sua opera che egli conosce o crea la cosiddetta realtà (questa sorta di ammasso stellare in vitro, sempre pronto a mutarsi in buco nero), il che significa anche che il mettersi in opera è la tensione creativa e consapevole di una unicità singolare o molteplice, nella quale, beninteso, agisce sempre l’insieme delle sue relazioni col mondo.
Ora, se si mira non soltanto all’esistenza, ma soprattutto ad una esperienza compiuta dell’esistere, allora l’opera va realizzata e posta in uno spazio comune, e non può restare un semplice progetto interiore.
Esistono entusiasmi deliziosi.
Per Max Stirner, ogni uomo è perfetto così com’è. A sentire Kafka, invece, ci sono momenti nei quali nascono frasi già perfette in sé.
Esiste dunque un movimento grazie al quale ciò che è dentro viene a trovare la sua realtà nel fuori e a passare per vero in una traduzione fedele dell’esistenza. Il movimento crea luoghi e comunanze. E i luoghi comuni non sono altro che la verità del movimento che s’impone.
In tutto questo, quando nominiamo gli elementi del mondo, le nostre parole imbrigliano una parte dell’energia che muove la verità. Dare un nome alle cose, farsi un nome. Le parole diventano accumulatori, energia stoccata, differita, pronta ad essere rimessa in circolo; ci aiutano a fissare i picchi, a preservarne l’esperienza, il ricordo, a rilanciarne il desiderio o a fugarne l’evenienza.
Bisogna credere, insomma, anche attraverso le parole (e contro molte di esse), che ci sia ancora un gran bacino d’amicizia in fondo a quelle frasi che non sono morte tra i discorsi di circostanza. (…)