Qui di seguito potete leggere un blocco di frammenti incluso in Infilare una mano tra le gambe del destino (Asinamali, 2015). Le quattro fotografie che illustrano il post sono di Marla Lombardo, che ringrazio di tutto cuore per il bel regalo.
Mantenerti nella mia bocca, significa non poter dire tutta la strenua bellezza cui cerco di dar rifugio.
Ciò che non ho detto vivrà nel segreto dei corpi a venire.
C’è sempre una macchia cieca del pensiero, un terrain vague della mente dove giochiamo a nascondino toccandoci furtivamente tutte le volte che vogliamo.
L’esigenza dell’esposizione – della chiarezza – non mi ha mai tenuto penosamente intorno al possibile. Curioso del divenire, mi son destinato fin da bambino ad un’apertura senza rimedio, ad un rigore colmo di sorrisi.
– Io ti aforizzo, certo, ma non ti sfratto dall’immane.
Quel mattino, mentre giravi per casa con addosso soltanto una camiciola da notte, avevo visto il candore delle tue belle gambe soggiogare lo spazio.
– Piantarmi negli occhi tutto quel bianco vivo, che diamine!
Le tue cosce di luce cagliata e a misura di stelle. Le tue cosce di marmo caldo e in combutta coi rigori della poesia. Avevano l’epicità di un ruscellamento, la violenza senza legittimazione che svia il pensiero riconducendolo a casa.
In realtà, quel mattino mi stavi mettendo alla prova, ma questo lo avrei saputo solo dopo, molto dopo. I tuoi sguardi maliziosi e quasi piccati (potevo mai azzardarmi a non riconoscere la tua ostensione carnale?) erano una sortita, un rampino lanciato oltre le mura del dedalo in cui m’ero cacciato.
Lo facevi non tanto per tirarmene fuori – sei sempre stata troppo orgogliosa per fare da segnavia agli uomini – quanto piuttosto per un semplice gioco di seduzione (m’hai confessato) o, chissà, possiamo dirlo?, al fine di creare un’area d’instabilità dove poterti sciogliere dal tuo mondo di allora.
Avrei dovuto ringraziarti subito. Stringerti un po’ più del dovuto quando t’ho salutata. Toccarti magari il culo furtivamente.
Mesi dopo, quando sei venuta da me a Firenze (il destino è ironico, non si assoggetta alle mancanze del caso), avevo ancora negli occhi quelle belle cosce bianche che facevano a gara con la luce del giorno.
Un nuovo squarcio, un nuovo ordine mobile andava aprendosi in quel vizio dell’eternità che saremmo stati.
Forse, con una sorta di parola, quindi parlandone, benché a sprazzi, oppure in un silenzio colmo di cose – perché anche il silenzio pullula di nomi – mi ero illuso di trasmettere ciò che deborda, ciò che soverchia l’inclemenza dell’ineluttabile.
Oggi come ieri, l’impossibile che mi strega è questa illusione, questo flutto che si abbatte sui miei stessi limiti aprendomi ad una violenza indelimitabile, figlia del movimento e dell’amore totale. E qui, l’aggettivo “totale”, non implica semplicemente un’idea di totalità, bensì un andirivieni sensuale tra i corpi che trasmettono e incarnano quell’idea, i quali non cessano di accogliersi l’un l’altro nel movimento stesso che li mette al mondo.
Quando parlo di violenza, io parlo davvero di una forza che ottunde il pensiero e arrischia l’integrità dei corpi. Un’improvvisa cesura. Un’insorgenza. – Eva che s’ingozza di mele mentre Adamo si masturba ai piedi dell’albero della conoscenza rendendosi conto che esiste una vita e che questa va omaggiata, oltraggiata.
Siccome l’amore è come tutte le altre cose, vale a dire un insieme di materia che si ricombina senza posa, vi è in esso tanta mancanza quante sono le chiusure sul moto dell’esistente che lo rilega e lo trasporta.
Dobbiamo riunire i pezzi che rompono con l’esigenza frammentaria. L’affermazione è nel respiro dei dettagli che non hanno bisogno di prove.
Quando tutto sarà stato detto, rimarrà pur sempre da mutuare un’idea dell’impossibile, e dire allora il franamento, i vortici, la riluttanza a morire, i corvi sul terreno ghiacciato, la rottura del bando, l’uscita dal cerchio magico del pensiero, la sposa che ride, la sposa che sussurra agli alberi, il disastro che ci fa ridere sovranamente, la prossimità carnale che coniuga fuoco e pensiero senza ustionare la pelle, la nuova carne poetica, gli stratagemmi in cerca d’un corpo, l’irrazionale che sconfigge l’imbecillità, i piani di fuga, i dislivelli, lo scivolare lento in un mare che affonderà ogni sole. Quando tutto sarà stato detto, e più niente resterà al di fuori del moto ondoso che ci porta.
L’ha ribloggato su CIANURO EMOTIVO INCHIOSTRO D'ANIMA SINISTRAe ha commentato:
❤
Il movimento della carne, nel suo mostrarsi/ritrarsi, ha in sé la paura stessa come movente. Paura che non si inscrive dentro i retaggi di un pudore socialmente indotto, ma che piuttosto sorge dalla radice stessa dei rapporti umani, dalla loro casualità irriducibile, dalla scommessa folle che mette in connessione, un mattino di Giugno, due corpi sconosciuti.
Si può dire che quella paura generi il coraggio di quei corpi nell’affrontarsi poco a poco?
Io so che c’è una parte istintuale, ineluttabile in me come in te, che finisce inevitabilmente col plasmare persino il terrore in una battaglia che è un gioco solo fino a un certo punto.
La tua intelligenza, con mio sommo godimento, riconosce e accetta nel mio corpo e nella mente del mio corpo ciò che terrorizzerebbe altri uomini. Quell’istinto di caccia di cui parlavo prima. Quell’azzardo inalienabile che puoi chiamare orgoglio, che molti chiamerebbero prostituzione, che io chiamo vita. Ma solo se necessario.
Ognuno si sceglie le sue primavere, indeed.
ps. Le foto di Marla sono quanto mai perfette, nel tentativo di forare ulteriormente il tuo testo con spiragli di luce. ❤
quando la carne fa pieghe può succedere che la luce crolli.
Mi tengo lontana dalle pianure che brillano, sono tra i legni secchi di un inverno feroce.
Lore
Non chiedo più agli altri d’interessarsi ai miei tentativi di primavera.
Dovrei forse interessarmi io agli inverni degli altri?
Ognuno ha le sue stagioni. E il proprio modo di gestirle o subirle o bearsene.
e chi chiede niente? forse per me esiste il tempo?
Il tempo no, la carne sì.
Odiosa lori