[ ESAURITO ]
“La poesia deve ridiventare randagia. Il Libro non può rinchiuderla. Andate per il mondo, costruite decisioni, perdete le definizioni del potere. La vostra unicità sarà un seme per le terre ulteriori. Non preoccupatevi di chi l’innaffierà, occupatevi dell’aratura.”
Carmine Mangone, Infilare una mano tra le gambe del destino, a cura di Luigi Balice, Asinamali Edizioni/Éditions, Parigi, settembre 2015, 92 pp., copertina di Marco Castagnetto, euro 10, ISBN 978-2-9553822-0-2.
Libro pubblicato anche in francese nel novembre 2015 [seconda edizione: 2019]. Traduzione di Virginie Ebongué. Vedi la relativa scheda. [Un long compte rendu critique sur le site Zone Subversives].
Estratti dal libro: < 1 > < 2 > < 3 > < 4 >
Recensione e intervista a Luigi Balice di Gloria Liccioli su Parigi Grossomodo.
Recensione di Alessio Badelli su Impatto Sonoro.
Recensione di Massimo Argo su In Your Eyes ezine.
I testi inclusi nel volume sono tratti dalle seguenti opere di Carmine Mangone:
Anche ieri ho dimenticato di morire, TraccEdizioni, 1993;
La qualità dell’ingovernabile, Gwynplaine, 2011;
Sabotaggio mon amour, Gwynplaine, 2013;
Quest’amante che si chiama verità, Gwynplaine, 2014;
Fuoco sui ragazzi del coro, Nautilus, 2014.
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[ Testo dell’editore in quarta di copertina ]
“Un sacco di gente s’insedia confortabilmente in una supposta unità linguistica e una prematura sclerotizzazione del carattere. Si monta un sistema di principi mai legalizzati intimamente, e che non sono altro che un cedimento alla parola, alla nozione verbale di forze, spinte e controspinte servilmente dislocate. E così il dovere, la morale, l’immoralità, e l’amoralità, la giustizia, la carità, il giorno e la notte, le mogli, le fidanzate e le amiche, l’esercito e la banca, la bandiera e l’oro statunitense o moscovita, diventano come denti o capelli, qualcosa di accettabile e fatalmente incorporato, qualcosa che non si vive né si analizza perché è così e ci integra e completa e irrobustisce”.
(Julio Cortazar)
L’opera di Carmine invece contende continuamente territori alla banalità dei luoghi comuni e delle definizioni, sottrae l’oscenità al dominio incontrastato della pornografia e traccia un percorso poetico sovversivo, in cui tenerezza senza contropartita e violenza dell’amore totale ci conducono ad afferrare l’unità in piena pluralità.
Questo libro ha il potere di non ridursi alla facilità di una rotta, preferisce il pensiero randagio alle zelanti risposte da impiegato perfetto, smonta le pratiche che ci rendono assuefatti alla ginnastica dell’obbedienza, e lo fa con sensualità, infilando la mano tra le gambe del destino.
Mi sono imposta di descrivere il libro: ha una copertina bellissima, disegnata da Marco Castagnetto già apprezzato in ‘Tutto il nero che trabocca’; contiene vari scritti, credo tutto (?) il ‘repertorio pensato mangoniano’ per cui è inevitabile qualche ripetizione.
Si tenta una definizione di poesia, ancora un abbozzo che si compirà presto.
Solo ora poi comprendo perché al primo approccio di lettura abbandonai a pagina 22: l’ossessione per il corpo, l’incaponirsi a infilarci le mani, la lingua, il cazzo, come fosse un destino, appunto. Era ed è ancora troppo carnale, perché conosco i volti, le direzioni, ma non già il ‘disegno’ completo, non il punto alla fine delle parole, distraenti quanto conturbanti.
Capisco che il corpo, il suo farne protagonista dell’opera, è mezzo d’espressione, un volersi vivere come reale, perché il pensiero è a volte un intero mondo in cui ci racchiudiamo, rinchiudiamo, da cui osserviamo l’esterno e l’estraneo, le nuvole a valle e da li costruiamo, anche.
“Il sesso mi aiuta a zittire la ragione, a spalancare il dettaglio delle mie vite” (pag. 25), io aggiungerei un ‘ALLA mia vita.’. Peccato che la ragione non si zittisce mai e dunque il sesso è esso stesso una ragione. Per costruire ponti comuni, direbbe l’autore. Per pensare, dico io, ma complico le cose e soprattutto a me stessa.
Come suo solito Mangone parla ‘anche’ a me, provocando riflessioni, godendo di ‘inseminare’ terreni cartacei. Sorrido ai suoi bei tentativi, sono belli sì, ma saranno proficui?
Lo spero per me, perché ciò vorrà dire che ho ancora spazio per le parole, per le immagini e le volontà altrui a cui non mi sottraggo quando sono forti e gravide, ma che d’istinto rifiuto confondendo(mi). E così, ora, dopo aver letto tanto, dentro di me sedimenta un linguaggio, non un autore: ogni volta traccio un solco e poi ripongo l’aratro d’inchiostro e dimentico il contadino. Il problema con i contemporanei è che anche tu devi esserlo, ma è più facile rinchiudersi in una ‘scatola’ da dove offrire una lettura, tornando a Dosto per esempio, aspettando che la semina sia soddisfacente per me, lettrice.
“Cercare la verità fra le pieghe di un’intelligenza carnale”, cercare la propria poesia per poterle riempiere di essa, per poi in fondo vedere l’effetto che fa. Sorrido: i poeti sono facitori di gesti, consumatori di pelle, cannibali di intelligenze emotive. Non potrei pensare queste cose con un poeta del secolo scorso, lo capite anche voi, tutti i temi affrontati qui (poesia, corpo, amore, violenza, guerra, insurrezione, erotismo, pornografia, tenerezza, anarchia) lo sono stati egregiamente in passato, ma è bello vederne le declinazioni oggi, in un mondo a me vicino, mentre l’autore aforizza, scarnifica il linguaggio rendendolo essenziale e alla fine identificando Verità con Donna e viceversa ed è bello questo.
Ora che sono giunta al termine, vedo un palco. Nero. Sul palco una sedia. Vuota. Un cono di luce illumina un angolo di quel rettangolo alto, nel mezzo un uomo, dalle mani affusolate e forti, dagli occhi scuri, la testa calva. Nero, è vestito di nero, a richiamare la notte di cui è padrone , i lupi che incontra sul cammino, l’amore di cui è l’ossessione. Lo so, sto ricamando attorno a dei vecchi luoghi comuni di cui il mondo fisico e pure quello virtuale si rivestono, ormai mascherandosi, ‘nero’ volendo essere entrambi. L’uomo parla alla sedia vuota, di volta in volta occupata ora da una donna, ora da un uomo e costoro tentano il bianco ma inutilmente, non vengono visti dall’uomo. Tentano la comprensione, quel fulmine che squarcia l’insensibilità, tra concetti lì davanti incarnati. E la sedia sta di fronte all’uomo che gesticola, che disegna nell’aria amore e anarchia, dunque la propria ‘unicità ingovernabile’, sparando fuoco vivo, sputandolo con le parole in quel teatro come fosse solo suo.
Piccola nota: @Davide, se mi leggesse: lo vedi cosa intendevo dire parlando di ‘sobillare la mia curiosità’? E come potrei mai arrendermi a MM e alla sua insipiente Ladyhawke?
Grazie. La tua recensione più bella, almeno tra quelle che ho letto.
Mentre leggevo questo libro immaginavo un uomo che spaccava pietre con una grossa accetta. Allo stesso modo di come si spacca la legna. Immaginavo questo sasso colpito giusto al centro, aprirsi in due e sudare. Lacrime ovvero saliva ovvero sudore ovvero rugiada ovvero acqua di fonte. Sarebbe inutile dare a questo elemento che nasce dalla spontaneità dell’immaginazione nome o struttura chimica.
Certo e’ che solido e liquido si avvicendano, si sommano e si separano per tutta la scrittura di questo testo che credo (questa l’impressione) nasce incollocabile e nel tentativo di una collocazione appena la trova, ci passa sopra, la evita con l’agilità di una ballerina che ruota su una punta di gesso e torna in una semplice (e per questo perfetta) non-forma se non quella di un discorso amoroso che ben lontano dal riduzionismo moraleggiante di chi non esce mai dal suo confine, allarga volutamente il suo per dilagare in un finito che non finisce mai.
E dunque l’anima di questo discorso discontinuo e frammentato abbraccia ogni istanza dell’essere. Non ne esclude nessuna. Apre porte senza bussare o chiedere permesso. Lascia spogli gli stolidi e fa venir fame a chi nella pietra ci vede la meraviglia dell’immobile. Nella forza che spacca, l’energia romantica di un cielo carico di lucciole. Nella capacità di centrare un oggetto che rotola l’illusione alta e mai bastante di raggiungere l’essere per amare l’umano. Nel liquido il movimento che conduce al ricongiungimento degli opposti attraverso la rottura drastica e senza mezzi termini di tutto cio’ che e’ dato per raggiungere quell’oltre che non e’ mai altrove ma che e’ qui. Nella poesia della non quiescenza, della rottura con ogni possibile forma o meglio formalismo, attraverso un linguaggio che non tentenna mai e sa reggere argomentazioni non facili senza mai scadere nel banale o nel patetico.
Per questi motivi non e’ un libro per tutti, proprio perche’ dovrebbe esserlo.
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